La via più facile quasi mai è quella giusta. Quella più semplice lo è a volte, mentre la complessa – che di solito è quella corretta – si preferisce quasi sempre non imboccarla. In questa nostra epoca, la politica internazionale punta l’ago in una direzione, ovvero in un periodo di grande confusione, in un anelito di semplificazione la gente così come le imprese chiedono che qualcuno decida per tutti, che si assuma la responsabilità di quanto andrebbe fatto. Che, in un modo o nell’altro, gli semplifichi (almeno apparentemente) la vita.
Solo che la spinta alla banalizzazione sta alle fondamenta di ogni populismo e di ogni nazionalismo e/o deriva autoritaria. Quando l’impianto delle democrazie liberali va in fibrillazione perché sotto pressione a causa della complessità sia essa economica, sociale o politica, guadagnano spazio i demagoghi di varia estrazione che, sul pretesto di voler aiutare il presunto popolo (ovvero i loro elettori reali e potenziali), costruiscono le proprie fortune. Siamo al tempo del vince chi – banalizzando – la spara più grossa, così le opinioni si estremizzano e le posizioni si polarizzano, mentre gli alfieri dell’equilibrio, della razionalità, della riflessione, rimangono con il cerino in mano, con un pugno di mosche.
Si diceva un tempo che i reality show funzionassero perché facevano sentire rincuorata la platea tv. Pare che sbirciare le umane miserie dei concorrenti nel quotidiano dava agli spettatori l’impressione di essere migliori dei morti di fame e di fama che vi partecipavano. E come non premiare chi ci fa sentire migliori, foss’anche in una rincorsa verso il basso?
Accade un po’ lo stesso con la politica: davanti allo spettacolo mediocre della politica la gente o non va a votare, o vota chi sente uguale a sé o peggiore. Vuole sentirsi rincuorata e rassicurata. Si premia la mediocrità, nei casi migliori la medietà, non il guizzo e l’originalità, che creano distanza in un’epoca in cui i ragionamenti politici sono così basic da poter essere riassunti nello spazio di un tweet.
Tutto questo per dire che, in assenza di cultura politica, chi può assumersi un ruolo più a ragion veduta dell’economia? Ovviamente di una cultura economica “illuminata”, non votata al profitto fine a sé stesso. L’Italia oggi è piena di imprenditori e manager alle prese con articolati processi di digitalizzazione, di integrazione sociale e di azioni per rendere sostenibili le loro attività. Sono manager e imprenditori sottoposti a una perenne selezione naturale, che per sopravvivere devono tendere costantemente al meglio, pena la scomparsa dai radar. Si tratta di manager e imprenditori che devono guardarsi continuamente intorno per approfittare delle opportunità e imparare dagli esempi in giro per il mondo.
Mi chiedo, allora, e chiedo: cosa succederebbe se, nelle città e nelle regioni in cui operano, gli stessi manager e imprenditori si impegnassero a far crescere quella cultura di impresa – di cui in Italia esistono ancora esempi significativi – portatrice sana di un’idea di Paese che metta al primo posto la ragionevolezza, il dialogo, l’ascolto delle diversità, e si facesse portatrice di toni e di stili di vita che in virtù delle competenze guadagnate con lo studio e il lavoro e aborrendo il ricorso alle urla, alle polemiche e alla denigrazione sistematica dell’avversario, dettasse la linea per imboccare finalmente la via di una complessità consapevole?
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