L’export è dialogo

L'export è dialogo©GettyImages

Quando, nelle scorse settimane e oltre, abbiamo assistito alle intemerate di Trump, Musk e company, contro Europa, Canada, Messico e resto del mondo, con la sola eccezione della Russia che di colpo sembra essere diventata un’esemplare democrazia con un premier (parole degli uomini vicini alla nuova amministrazione Usa) “intelligentissimo”, mi sono chiesto dove fosse tutta questa acrimonia nei nostri confronti durante le precedenti amministrazioni Usa. Si direbbe che da decenni all’interno della più potente economia al mondo stesse covando un popolo (o quanto meno la parte maggioritaria elettoralmente parlando) nazionalista e refrattario al senso di comunità internazionale dialogante sorto sulle macerie della II Guerra mondiale. Un senso su cui erano stati edificati Onu e Nato, che oggi risulta quasi ecclissato Oltreoceano.

Succede così che la più grande potenza mondiale, quella che in passato ha ambito a esportare la democrazia, cominci a negare i suoi stessi principi, come la libertà di espressione, addirittura all’interno dei propri confini. Parlare di cortocircuito è dir poco. E temo che non sarà la diplomazia della politica a riportare a più miti consigli chi ha messo in atto quella che in molti considerano una vera e propria aggressione all’idea stessa di Europa Unita. Penso, invece, che possa essere più la diplomazia dell’economia a costringere tutti al dialogo.

C’è chi l’ha detto meglio di me, vedi il presidente Sergio Mattarella, e ancor prima di lui la storia di un altro italiano come Marco Polo: il commercio di opere dell’ingegno, lo scambio di manufatti e di prodotti della terra e della creatività sono ben più del mero commercio di cose, bensì un dialogo tra nazioni e popoli; più le opere dell’ingegno circolano, meglio i popoli interagiscono, si conoscono, apprezzano le reciproche culture e capacità, si abbassano i confini, quei confini eretti dalle guerre e minacciati dai conflitti.

Il cortocircuito dei dazi è figlio probabilmente di questo passaggio epocale in cui sono soprattutto le big tech a rappresentare la punta avanzata dell’economia a stelle e strisce, un’economia basata su beni immateriali come software e algoritmi, dove non esiste scambio e interazione umana. Siamo alla politica come sottocategoria dei registri dettati dai social media, dove tutto ciò che è possibile risulta lecito, dove la soglia della decenza viene stabilita dalle fazioni anziché dal dialogo e dalla prudenza, o dal rispetto del punto di vista altrui. Comprendo quindi l’allarme delle imprese italiane che si trovano a fronteggiare un attacco alle loro esportazioni, capisco quelle che temono ripercussioni peggiori se l’Europa stabilirà delle contromisure ai dazi Usa, ma va anche ricordato che limitarsi a subire questo tipo di aggressioni nei confronti delle nostre merci, senza un adeguata risposta, rischia di inviare dei segnali errati alla controparte. Una controparte che sta facendo valere aggressivamente la propria forza e che sembra avere orecchie solo per un certo tipo di linguaggio.

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