Colleziona l’arte e (non) metterla da parte. Per riassumere l’innamoramento del mondo delle imprese per le belle arti potremmo parafrasare così il celebre adagio. Si tratta, ormai anche nel nostro Paese, non di un fugace fidanzamento ma di un matrimonio felice e fortunato, che tutela entrambe le parti. Tra premi, promozioni di mostre, collezioni private e sostegno agli artisti non si contano più le aziende, le collezioni bancarie e i gruppi industriali ammaliati dall’arte e pronti a investire, quasi sempre pro bono, nel settore. Anche in Italia, dove non è sempre stato così.
Per capire qualcosa in più, bisogna risalire alle origini di un fenomeno relativamente recente e nato piuttosto lontano dallo Stivale. Siamo negli anni 50, a New York e, dal suo ufficio della Chase Manhattan Bank, David Rockefeller decise che la banca avrebbe dovuto differenziare i suoi acquisti e cominciare a comprare opere d’arte, facendosi consigliare da esperti (oggi li chiameremmo art advisor) e non per rapide compravendite, ma per costituire una collezione che negli anni a venire sarebbe diventata un nuovo asset della banca, parte del suo patrimonio. Da allora, seguendo un approccio che potremmo definire illuminato alle acquisizioni, la collezione della banca newyorkese è diventata un modello per altre società in tutto il mondo.
Il patrimonio artistico delle banche in Italia
Deutsche Bank, per esempio, può vantare oltre 70 mila opere raccolte nel corso degli anni, un record per le collezioni d’arte aziendali. In realtà l’impegno di Deutsche Bank non si limita alla mera collezione, ma anche all’attenzione verso l’arte contemporanea e alla promozione dei talenti: proprio questo mese, fino al 22 ottobre, è in mostra al Mudec di Milano la nuova esposizione di Deutsche Bank Artist of the Year con DOKU Experience Center dell’artista cinese LuYang che nel 2022 si è aggiudicato il prestigioso premio internazionale promosso dalla banca.
Notevole, per focalizzarci su quel che succede da noi, anche la collezione di Gallerie d’Italia, suddivisa nelle sedi di Milano, Vicenza, Napoli e Torino: sono i musei di Intesa Sanpaolo, creatisi negli ultimi decenni dalle acquisizioni bancarie del gruppo da Unicredit, che storicamente collezionava arte sul territorio. Non si può dimenticare poi il fortunato caso della Banca Popolare di Sondrio che, specie dagli anni 50, ha cominciato a collezionare opere dell’Ottocento e del Novecento da mercanti e gallerie locali dando forma a una prestigiosa collezione.
Secondo lo studio Corporate collection in Italia, svolto dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con la collaborazione di Axa Art su 445 collezioni aziendali sul nostro territorio, emerge che le collezioni analizzate hanno un valore medio di circa 5 milioni di euro, che il numero di pezzi detenuti è di meno di 50 nel 20% dei casi, mentre le collezioni più complesse che superano le 3 mila opere sono il 16% dei casi.
Le aziende che investono di più nell’arte
L’arte contemporanea rappresenta oltre la metà delle collezioni considerate, mentre il 41% delle aziende con collezioni d’arte ha dichiarato di avere pezzi sia di artisti italiani che stranieri. Quali sono le imprese più art-addicted? Sono le aziende del comparto bancario e assicurativo ad avere la quota maggiore di collezioni (le fondazioni bancarie, da sole, rappresentano oltre il 40% del campione), seguite da quelle di manifattura, moda e design.
«Su un punto dobbiamo essere molto chiari: l’arte entra in azienda come leva di marketing», spiega a Business People Sabino Maria Frassà, curatore e direttore artistico di Cramum, che collabora, tra le altre cose, ai progetti artistici sostenuti da Gaggenau. E continua: «Il concetto di social responsability, che ha una matrice protestante, è approdato nel nostro Paese molto dopo che all’estero: solo di recente le aziende si sono interrogate sulla questione e l’arte è diventata un ottimo strumento per la promozione di valori vicini all’azienda».
Certamente, è necessario fare dei distinguo. Per alcune imprese, come quelle della moda, del design o del lusso in generale, contigue a questo mondo, il legame è più stretto e l’arte diventa per questi brand anche un efficace agente di marketing: pensiamo a un caso fortunato e noto a tutti come la partnership tra Louis Vuitton e l’artistar giapponese Yayoi Kusama, famosa per le sue opere a pois. Talvolta, l’interesse per l’arte è organico all’azienda stessa: Miuccia Prada e Patrizio Bertelli, grandi appassionati e collezionisti, con la nascita della Fondazione Prada hanno musealizzato la loro collezione, trasformato un intero quartiere di Milano, quello a Sud dello scalo ferroviario di Porta Romana, e creato qualcosa che sopravviverà a loro.
Il mondo della moda prende spesso a braccetto l’arte attraverso la creazione di fondazioni ad hoc (come Fondazione Trussardi, Fondazione Furla, Collezione Maramotti, Collezione Armani): «In questo caso l’arte è vicina al settore merceologico dell’azienda, si integra in modo organico e può diventare davvero agente di cambiamento su quei valori che interessano all’impresa», continua Fassà.
I benefici dell’arte per le aziende
Grazie al connubio tra attività collezionistica e brand dell’azienda, l’impresa aumenta sia la brand awareness (la notorietà) sia il brand positioning (il posizionamento), distinguendosi dai concorrenti. Se sfruttata intelligentemente la collezione diventa infatti un fattore fondamentale per il marketing dell’impresa, oltre che un valido strumento di pubbliche relazioni.
Non possiamo però tagliar fuori dal discorso la piccola e media impresa italiana: «In una società industriale come la nostra ancora molto patronale, in cui le aziende sono rette da “capitani” la cui vita privata spesso coincide con quella dell’azienda da loro creata, l’arte entra in ufficio perché è una passione dello stesso imprenditore. Fin dai tempi di un visionario come Olivetti si discettava di quanto “il bello e il bene” in fabbrica e in azienda potessero migliorare la qualità della vita lavorativa di operai e impiegati ma oggi, e lo dico con grande rispetto, questa idea suona un po’ paternalistica.
Siamo davvero sicuri che nel 2023, con lo smart working sdoganato e con stipendi sempre più miseri, il lavoratore apprezzi davvero l’esperienza del bello sul posto di lavoro? Siamo sicuri che non preferisca un altro genere di benefit? A queste domande dovrebbero rispondere tutti quegli imprenditori che non usano l’arte come strumento di marketing verso l’esterno, ma come mezzo interno per fidelizzare i propri dipendenti. Non è più il momento di portare avanti esperimenti, serve una strategia a lungo termine, da pensare a seconda delle diverse situazioni aziendali: l’arte in azienda funziona davvero e fa davvero del bene, se è ben pensata, se è spiegata ai dipendenti, se comunica un messaggio condiviso», conclude Fassà.
Questo articolo è stato pubblicato su Business People di ottobre 2023. Scarica il numero o abbonati qui
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