Menù dei sensi tra terra e mare

Incontro con lo chef che nei suoi piatti sa essere allo stesso tempo razionalista ed esistenzialista, sinfonico e beat, impressionista e rinascimentale

Mauro Uliassi non è uno chef mediatico, ma la fama l’ha ormai raggiunta e consolidata da tempo sul campo, con il costante apprezzamento del pubblico che si reca in pellegrinaggio gastronomico nel suo omonimo ristorante in quel di Senigallia (An), e anche con l’essersi meritato due stelle Michelin e punteggi lusinghieri nelle guide. Una cucina sul mare e non solo di mare, perché il pescato qui, come i prodotti della terra e della caccia, sono ciò che la natura offre all’uomo per esprimere la sua sensibilità visionaria, ciò che il gusto riesce a trasformare in percezione partendo da un’idea. La cucina di Mauro Uliassi è razionalista ed esistenzialista, è sinfonica e beat nello stesso piatto, è impressionista e rinascimentale insieme. Tra i suoi classici le tagliatelle di seppia, pesto di alga nori e quinoa fritta, o l’albanella di molluschi, crostacei ed erbe aromatiche, ma il godimento puro è nel “Lab”: i piatti della ricerca, come il bagnasciuga o il fosso, che si devono immaginare prima che gustare. Ciò che è certo è che dopo una cena da Uliassi si va via con la voglia di tornare, con un desiderio appagato che lascia un solco di nostalgia nel cuore, e con l’immagine da cartolina impressa nella mente di quei tavoli al tramonto sul mare.

Com’è diventato chef e qual è stato il momento in cui hai deciso che la cucina era il suo regno?
Fin da piccolo sia io che mia sorella Catia abbiamo respirato l’aria della ristorazione: i nostri genitori avevano un bar. Nonostante abbia iniziato a studiare in un istituto tecnico, ho poi proseguito alla scuola alberghiera fino al diploma; a 17 anni ho cominciato a lavorare “facendo le stagioni” come barman in night e discoteche, e nelle cucine degli alberghi, sia in Italia che in Francia. Mi sono allontano per breve tempo dai fornelli, quando ho provato a cimentarmi con la facoltà di Sociologia a Urbino; ma è durata poco, giusto il tempo di conoscere Chantal, mia futura moglie, e di capire quanto mi piacesse far star bene le persone a tavola. Ho anche insegnato alla scuola alberghiera, anni intensi e che mi permettevano di affinare la tecnica e prepararmi a gestire un locale con mia sorella. Ma la scintilla vera è stata una cena di compleanno per Chantal e i suoi amici dove ho messo tutto me stesso e il mio ingegno con risultati strepitosi: ho capito solo quella sera quanto fosse potente il cibo e la sua capacità di sedurre. Gli studi in sociologia si sono dimostrati utili in seguito: essere ristoratore significa capire le persone, le loro richieste e, non ultime, le aspettative attorno a un tavolo in questo rito moderno e antico che è il pasto.

Cosa la diverte di più fare in cucina?
Non c’è una cosa in particolare ma di certo tutto è divertente e appagante quando sei ispirato, e ti viene una specie di illuminazione che ti permette di trarre spunto da quello che ti circonda, da chi hai accanto. Una forma di entusiasmo incontrollabile, eccitante e che trova il suo apice quando c’è corrispondenza tra quanto hai pensato e quello che hai realizzato, quando capisci che un gusto o un abbinamento che non esisteva adesso c’è ed è nel tuo piatto.

Sala e cucina, ultimamente si parla parecchio dei due aspetti e relativi ruoli di chef e maître per il successo di un locale. Qual è la filosofia che guida lei e sua sorella nella conduzione del ristorante?
L’importanza della sala c’è sempre stata ma è cambiata nella sostanza, soprattutto da quando il cuoco è diventato una figura così mediatica e centrale nella comunicazione e nel successo di un locale. Prima il lavoro di sala, camerieri e maître, era fondamentale perché i piatti uscivano dalla cucina incompleti e c’era bisogno dell’ultimo tocco al tavolo, spesso con attrezzature e trovate sceniche importanti per la percezione della qualità. Oggi i piatti escono di cucina già finiti e il lavoro del cameriere è cambiato radicalmente. La sala si occupa dei dettagli, quelle attenzioni e quegli atti che preparano il cliente a godere davvero del cibo. Quindi, l’attenzione all’ambiente, il sorriso, un senso di piacevolezza che deve iniziare da quando entri, da quando i tuoi sensi cominciano ad aprirsi e ti preparano all’esperienza gastronomica. Se il posto è malcurato ti senti a disagio, la felicità e il piacere non possono essere gli stessi perché i sensi sono indisposti. È quasi inutile avere una grande cucina se non si ha una “grande” sala capace di presentarla e farla apprezzare al meglio.

Il suo attrezzo preferito?
Non ne ho uno in particolare: la cucina per un cuoco è come l’officina del meccanico o una sala d’incisione per il musicista, tutto è bello e utile ma in realtà posso avere mille attrezzi o improvvisare in mezzo a un campo e il risultato dipende sempre dalla testa.

Ha mai mandato qualcuno nel ristorante di un amico?
A Senigallia siamo fortunati perché consiglio spesso Moreno Cedroni, con cui da sempre sono molto in sintonia. Sul Tirreno mando sempre volentieri le persone da Zazzeri a Marina di Bibbona, Lorenzo al Forte, Romano a Viareggio, anche se manca sempre il grandissimo Pierangelini.

Lo street food è una delle nuove frontiere anche del cibo gourmet, in cosa consiste il suo nuovo progetto Uliassi on the dock?
È un progetto nato in maniera molto “naturale”. Il nostro ristorante si trova su un molo e quando vivi molto nel tuo territorio cerchi di circondarti di cose autentiche. Lavoro in un posto meraviglioso che cambia tanto con clima e condizioni ambientali straordinarie. Quando ho pensato allo street food dietro al locale, l’ho pensato come a un modo per partecipare a questa vita più diretta e popolare, perché si tratta di un cibo senza sovrastrutture, senza fronzoli. Lo street food risponde solo all’istinto della fame e nel nostro caso serve anche a lenire quella malinconia che ti prende sul molo con le navi che partono e arrivano e gli attimi struggenti dei saluti.

Con un biglietto gratis per qualsiasi parte del mondo, dove andrebbe?
Tornerei subito in Polinesia! Ci andammo con il personale del locale invitati da Antonio Mattei, il nostro primo cliente vip, nipote di Enrico Mattei. Antonio era di Matelica, ma abitava qui a Senigallia, era un grande viveur che amava il gioco delle carte, i cavalli, la Borsa, le belle donne e ovviamente cibo e vino. Passammo con lui dieci giorni a Rangiroa, con niente con noi tranne due polinesiani che ci assistevano, si parlava solo francese e per mangiare si doveva cacciare.

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