Parkour, acrobazie metropolitane

Nato in Francia a metà degli Anni 80, oggi il parkour è una disciplina riconosciuta anche in Italia, che si distingue per le sue sempre più eccezionali performance nelle competizioni internazionali

Parkour, acrobazie metropolitaneAim pratica parkour a Central Park (New York City) Photo by Chris McGrath/Getty Images

Madagascar: in una baraccopoli polverosa, una folla di scommettitori si accalca intorno a un cobra e una donnola che si affrontano al centro di un’arena improvvisata. Da qui parte un inseguimento al cardiopalma: un ragazzo di colore fugge all’interno di un cantiere, alle sue spalle un agente segreto non molla di un centimetro. Il ragazzo sembra una molla impazzita: corre, salta da un traliccio all’altro, fra una capriola e un salto mortale si ritrova ad affrontare il suo inseguitore in bilico sul braccio di una gru a decine di metri di altezza. E ancora salti, scivolate, evoluzioni e corse a perdifiato fino al confronto finale all’interno del cortile di un’ambasciata. È l’inizio di Agente 007: Casino Royale (2006), 21esimo capitolo della saga di James Bond, il primo interpretato da Daniel Craig, probabilmente il film di maggior successo fra quelli che, e ce ne sono diversi, hanno proposto sequenze d’azione basate sul parkour.

Il parkour è ormai una disciplina sportiva riconosciuta, in Italia è stata inserita tra le specialità della Federazione Ginnastica nel dicembre del 2018. Consiste nel compiere un percorso prestabilito superando qualsiasi tipo di ostacolo si frapponga tra il punto di inizio e quello finale. Da qui la necessità di puntellare la corsa con salti, capriole, arrampicate, scivolamenti e altre evoluzioni.

Le gare di parkour

Le gare sono di due tipi. Lo Speed è essenzialmente un confronto a tempo: due concorrenti affrontano lo stesso percorso e chi ci mette di meno vince. Il Freestyle prevede invece la presenza di giudici che valutino la qualità e la difficoltà delle evoluzioni che i concorrenti aggiungeranno alla loro esecuzione, un po’ come avviene nello skate o nello snowboard.

Ma a parte la sua natura sportiva, su cui torneremo, quello che più affascina del parkour sono le sue origini. C’è innanzitutto un patriarca, un fondatore, il francese David Belle. A metà degli anni 80 Belle si trasferì nel sobborgo parigino di Lisses, dove iniziò a mettere in pratica in ambiente urbano le tecniche di allenamento che aveva imparato da suo padre Raymond durante le vacanze nella campagna francese. Suo padre era un pompiere decorato, che trasmise al ragazzo i principi che venivano usati nell’addestramento del corpo dei vigili del fuoco, ispirati dagli insegnamenti di Georges Hébert.

Principi che non sono solo di natura sportiva: gli ostacoli non vanno aggirati, vanno superati, con fatica e dedizione. Ufficiale della Marina francese prima e insegnante di educazione fisica poi, Hébert nel primo 900 teorizzò un Metodo Naturale di addestramento fisico basato sui movimenti naturali dell’uomo, dunque la corsa, il salto, l’avanzamento carponi, il movimento in equilibrio, il sollevamento ecc. Hébert fu quindi promotore dei parcours, ovvero dei percorsi a ostacoli come metodo di addestramento, che sarà poi utilizzato sia dai corpi militari (francesi in primis, ma poi anche tedeschi e inglesi) sia dalle varie attività di fitness successive, nonché nei corsi di sopravvivenza.

Dunque, il giovane Belle si diletta a creare dei percorsi cittadini dove strutture architettoniche, scalinate, finestre, muri, lampioni, tetti, cancelli sono ostacoli da superare o addirittura strumenti di cui avvalersi per rendere la corsa più efficace e veloce. Quello che fa ora ha un nome, parkour, e chi lo pratica sono i traceurs, i tracciatori. Con i suoi amici (fra cui c’è anche Sébastien Foucan, futuro fondatore della disciplina “sorella” del free running, nonché interprete del ragazzo in fuga nel film di 007 di cui dicevamo), Belle compie le sue scorribande sui tetti di Parigi, raccogliendo seguaci e facendosi notare prima di tutto da registi e cineasti in cerca di novità.

Mikkel Rugaard a Central Park, New York City (© Getty Images)

La diffusione in Italia

Da recuperare e vedere, a titolo di curiosità, Yamakasi – I nuovi samurai di Julien Seri e Ariel Zeltoun. Ma nel frattempo è arrivato Internet e il parkour si fa conoscere in tutto il mondo. Nascono anche in Italia i primi gruppi di praticanti, che si incontrano e si organizzano in Rete, e nel 2005 nascono le prime associazioni nazionali, a Roma e a Prato. Il resto è storia. E oggi l’Italia è protagonista delle maggiori competizioni internazionali: «Il parkour è molto attivo in Italia», racconta Roberto Carminucci, direttore tecnico nazionale del parkour per la Federazione Ginnastica d’Italia, alla vigilia dei Mondiali di Giappone. «Abbiamo una grandissima diffusione a livello nazionale, buonissimi vivai, e anche il settore femminile sta diventando interessante. Spero di poter portare presto a livello internazionale anche qualche ragazza. Negli ultimi anni abbiamo vinto qualcosa come 13 medaglie, un risultato eccezionale. Ma ogni volta che c’è una nuova gara si riazzera tutto. Non è detto che se hai tante medaglie in bacheca ne vincerai altre. Il livello è altissimo e ogni gara fa storia a sé».


Campioni a confronto

Quando leggerete queste righe si saranno già svolti i Campionati Mondiali di parkour in Giappone, evento cui avranno partecipato, fra gli altri, anche i due protagonisti di una finale tutta azzurra nella recente Coppa del Mondo in Portogallo. Li abbiamo intervistati alla vigilia della partenza per Kitakyushu

Luca Demarchi – 21 anni da Gorizia

Quando e come ha incontrato il parkour?
Da bambino mi piaceva arrampicarmi, saltare, correre in giro tutto il giorno. Giocavo a basket, finchéé su YouTube non ho scoperto l’esistenza del parkour. Mi sono detto: devo provarlo! Un colpo di fulmine, ho deciso subito che era quello che volevo fare.

Rimarrà per sempre il primo italiano ad avere vinto un oro in questa disciplina. Come la fa sentire questa cosa?
Sul momento non ho realizzato cosa era successo davvero. Dopo qualche giorno, ho cominciato a pensarci: avevo vinto io, e la prima medaglia sarà per sempre la mia. È una cosa importante, unica. Una gioia immensa, una soddisfazione che mi ripaga di tanti sacrifici.

Viene dall’Oro in Coppa del Mondo a Coimbra, e quindi sei probabilmente l’uomo da battere ai Mondiali in Giappone.
Devo difendere il titolo, quindi un po’ di pressione la sento. Ci sono tanti ragazzi molto forti, magari anche più forti di me, dovrò essere molto concentrato e focalizzato. Ma mi sento in forma e ben allenato. Magari sarà proprio la testa a fare la differenza. Restare tranquilli e cercare di divertirsi può essere fondamentale.

Andrea Consolini – 23 anni da Brescia

Come nasce la sua passione per il parkour?
Diciamo che da bambino non ero molto tranquillo. Ero sempre in giro, correvo, mi arrampicavo dappertutto. Ovviamente non sapevo dell’esistenza del parkour. L’ho scoperto intorno ai 13-14 anni su Internet. È iniziato tutto quando ho saputo che la palestra Le Aquile a Brescia faceva dei corsi: avevo trovato quello che faceva per me.

Sta partendo per i Mondiali del Giappone: che aspettative ha?
Alte: mi sento in forma, voglio spingere. Punto alla prima posizione… poi vedremo. L’importante è divertirsi, ma bisogna comunque puntare a vincere. Non sarà facile, perché da quello che abbiamo visto nelle ultime gare siamo tutti lì, i primi sei-otto della graduatoria sono separati da pochi centesimi di secondo.

Alle Olimpiadi di Parigi abbiamo visto gare di skateboard o di breakdance. Che speranze ci sono di veder riconosciuta anche al parkour una rilevanza del genere?
Sarebbe bellissimo se anche il parkour diventasse disciplina olimpica. Noi speravamo succedesse già dalla prossima edizione, a Los Angeles, ma nell’elenco delle discipline previste non c’è. Magari dalle successive, in Australia…


Articolo pubblicato sul numero di Business People di dicembre 2024. Scarica il numero o abbonati qui

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