Zerocalcare: raccontare se stessi e il mondo

Aspettando 'Kobane Calling'... intervista al fumettista italiano Michele Rech

Con il suo stile unico, Zerocalcare è riuscito a farsi apprezzare dal grande pubblico e a diventare uno dei fenomeni del fumetto italiano. I suoi libri hanno venduto più di 400 mila copie e con Dimentica il mio nome è stato il secondo fumettista italiano – dopo Gipi – a essere candidato al premio Strega. Il prossimo aprile si prepara a tornare in libreria con un nuovo libro, Kobane Calling (Bao Publishing), un reportage sulla città curda al confine con la Turchia

Quando ha cominciato a disegnare?Lo faccio da sempre, sin da bambino. Le mie prime cose “importanti”, però, le ho fatte intorno ai 16-17 anni, quando ho cominciato a disegnare le locandine per i concerti e i dischi. Il mio primo fumetto vero e proprio, con una storia sequenziale, è un racconto a fumetti del G8 di Genova. Poi, da lì ci sono stati quasi dieci anni fino al 2010-2011, quando mi sono confrontato con un lutto personale.

È allora che ha iniziato a lavorare a La profezia dell’armadillo?Ho deciso di provare a raccontare delle storie un po’ più personali: era morta questa mia amica, e volevo raccontare con i fumetti il rapporto che avevamo. Queste storie le ho condivise sulla mia pagina Facebook personale e vedevo che funzionavano con i miei amici. Uno di loro le mandò al Canemucco, la rivista di Makkox per Coniglio Editore. A lui piacquero e mi propose di pubblicarle – le prime con l’armadillo (che rappresenta la sua coscienza, ndr) – sulla rivista. Hanno avuto un discreto successo di pubblico e da lì hanno chiesto di farci un libro.

Il segreto del suo successo, probabilmente, è il tono con cui racconta le sue storie. Spesso ironico, ma sempre personale.Non penso che il fumetto sia soltanto questo. Se lo faccio da solo, posso raccontare me stesso e quello che, appunto, vivo in prima persona. Ma il fumetto può essere tante cose: c’è tutto il periodo in cui ho fatto fumetto nei centri sociali, per esempio, e quello era un prodotto collettivo.

Il discorso, invece, è diverso per i suoi reportage a fumetti (pubblicati da Internazionale) e per il suo prossimo libro, Kobane Calling. Il suo punto di vista in quel caso serve per raccontare in modo semplice una realtà.Sono prodotti molto meno personali rispetto a come vengono poi presentati dalla stampa. Non sono andato lì da solo, ho seguito un percorso prima di partire, fatto riunioni e approfondimenti di formazione con la stessa comunità curda. Poi in viaggio effettivamente ci sono momenti molto difficili da far capire. Ma se ho potuto raccontarli è grazie alle persone che erano con me e con cui mi sono confrontato. In questi reportage ci sono delle cose che non sono solo il mio punto di vista, anzi.

È tuttavia innegabile che lo “storytelling personale”, cioè una versione più intima di un racconto, stia catturando un gran numero di lettori.È vero, funziona, ma io ho sempre un po’ paura dello storytelling personale: temo che si cada in un eccesso di protagonismo delle persone a discapito di quello che si racconta.

Qual è il suo rapporto con Internet dopo il successo?Con i fumetti Web, prima di avere un blog personale, non avevo un vero e proprio rapporto. Li seguivo molto raramente. Avere un blog, comunque, mi ha permesso di avere dei feedback immediati con chi mi legge. Per la Rete puoi fare storie di un certo tipo, con un approfondimento diverso e tempi diversi: altre storie hanno bisogno della carta, perché predispone le persone a prendersi più tempo per leggere.

Dopo Gipi, lei è stato il secondo fumettista a essere candidato al Premio Strega. Come l’ha vissuto?Il rapporto con gli scrittori e gli editori che ho incontrato è stato buono. A un certo punto, però, cambia proprio il contesto. Si va nei salotti, con gente che vive solo di fotografie sui tabloid, e io non ci potevo proprio stare. Non penso che lo Strega sia di per sé una cosa orrenda, anzi: le persone che ci lavorano sono persone molto serie. A un certo punto, però, con l’attenzione di tutti i media, cambia tutto.

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