Albiera Antinori: seminare per il domani

Crescere a piccoli passi, tenendo ben saldi valori quali tradizione, passione, intuizione e rispetto del territorio. Ecco come Marchesi Antinori, una delle aziende più longeve e importanti dell’enologia mondiale, ha costruito il suo business. Da ben 26 generazioni

Albiera-AntinoriClasse ‘66, è la primogenita del marchese Piero. In “cantina” dall’età di 20 anni, oggi è vicepresidente dell’azienda e consigliere in altre società del gruppo, oltre che membro del Consiglio di Federvini© Sandro Michahelles

Non è un’esagerazione affermare che buona parte della fama che il vino made in Italy ha a livello internazionale è merito della Marchesi Antinori. In più di 600 anni e in una storia lunga ben 26 generazioni, la famiglia ha sempre gestito direttamente la propria azienda – che oggi conta oltre 1.900 ettari in Italia e altri 600 sparsi fra Stati Uniti, Ungheria, Cile, Malta e Romania – attraverso scelte innovative e coraggiose. Come quella che, negli anni 70, ha portato il marchese Piero Antinori alla produzione del Tignanello, considerato ormai il precursore del Rinascimento del vino italiano, inaugurando quella categoria di vini prestigiosi a cui si sono poi aggiunte altre eccellenze come il Solaia, l’Ornellaia e il Sassicaia.

Tradizione, passione, intuizione, ma soprattutto il rispetto per la terra e i suoi frutti. Gli Antinori custodiscono e tramandano la preziosa arte del vino, che segue le logiche del mercato, ma non si piega a esse. Lo hanno capito a loro spese gli inglesi della Whitbread, allora multinazionale della birra, che puntava a investire nel settore del vino in cerca di nuove occasioni di business. Entrò in società nel 1984 con una quota di minoranza, ma dopo otto anni se ne tirò fuori, anche per iniziativa di Piero Antinori, che, con un investimento non senza rischi, decise di ricomprare le quote per tornare a gestire l’azienda in autonomia, affiancato dalle figlie Albiera, Allegra e Alessia, ormai coinvolte in prima persona nelle attività.

«Uscirono dopo qualche anno dalla società perché il mondo del vino non è quello della birra o dei liquori, dove si ha un rapido ritorno sull’investimento», spiega Albiera Antinori. «Nel nostro settore bisogna aspettare almeno 15 anni… Loro alla fine si sono resi conti di non essere interessati a un investimento di questo tipo». Prima foglia del ventiseiesimo ramo dell’albero genealogico di famiglia, come tutti gli Antinori, Albiera è entrata in punta di piedi in azienda, acquisendo sempre maggiori responsabilità. Dopo la maturità classica a Firenze e un Master Ipsoa in Comunicazione d’impresa, la primogenita del marchese Piero inizia a esplorare i settori produttivi, commerciali e di marketing. Nel 1995 le viene affidata la responsabilità della Prunotto, azienda storica piemontese di cui mantiene la carica di presidente dal 1998. Oggi è vicepresidente della Marchesi Antinori, consigliere in altre società del gruppo e, con le sorelle e il padre, prepara la strada per la 27esima generazione.

Gestire il passaggio generazionale non è sempre facile, soprattutto quando avviene in famiglia. Recentemente Leonardo Del Vecchio ha affermato che i figli non dovrebbero avere responsabilità in azienda. Lei cosa ne pensa?
Probabilmente, visto che Luxottica è stata fondata da lui, sente meno la necessità di consegnare le redini alla generazione successiva. Per noi, invece, il passaggio generazionale è qualcosa di naturale: non saremmo qui se non fossimo stati in grado di coinvolgere e preparare al meglio la generazione successiva nel corso dei secoli. Certo, può succedere che i figli non siano adatti al ruolo o non siano interessati, ma noi abbiamo sempre cercato di coinvolgerli e appassionarli fin da piccoli. È anche un po’ nella natura del nostro business. Nel settore agricolo, viticolo, si lavora su uno spazio temporale molto lento e tutto quello che facciamo viene fatto in funzione delle generazioni future, in caso contrario non avrebbe senso: la velocità con cui si ha un ritorno economico nel costruire un nuovo stabilimento non è la stessa del costruire una cantina.

State già preparando il terreno per i vostri figli, quindi?
Per noi si tratta di un “inserimento” continuo: non è ancora terminato il nostro e non c’è un momento in cui inizia per la generazione successiva. È un processo molto più fluido. Al momento ci sono tre generazioni che si aiutano vicendevolmente, in questo consiste la linfa vitale di un mestiere come il nostro. Anche per quanto mi riguarda non c’è stato un vero e proprio momento in cui mi sono detta “oggi inizio a lavorare” o “tra dieci mi occuperò dell’azienda di famiglia”. La terra e le vigne sono qualcosa che vivi fin da piccolo, ti entrano nel sangue. E mi auguro che sia così anche per i nostri figli. È un ciclo continuo, un lavoro di apprendimento che, a un certo momento, diventa anche di insegnamento alla generazione successiva.

Non è mai stata attratta da un altro mestiere?
No, in realtà no. Anche perché nelle aziende familiari, se c’è qualcuno che ha una particolare passione, si può specializzare in certi settori in modo da mettere a frutto gli interessi personali in seno al meccanismo aziendale. Io, per esempio, da appassionata di architettura, ho avuto modo di curare la parte immobiliare di Marchesi Antinori, occupandomi della costruzione delle nuove cantine (dieci nel periodo 2006-2011, ndr).

Ha iniziato a lavorare in azienda nel 1986, a soli vent’anni. C’è qualcosa della sua gestione di cui va particolarmente fiera?
Una delle ultime è l’elaborazione e la costruzione della cantina nel Chianti Classico (dove oggi si trova la nuova sede della Marchesi Antinori, a San Casciano Val di Pesa – Firenze, ndr). Ho seguito personalmente i lavori ed è stato un progetto molto impegnativo sia dal punto di vista dei tempi che dei costi, ma devo dire con un ottimo risultato, funzionale ed estetico. Anche alla Prunotto mi sono tolta diverse soddisfazioni. Era una delle mie prime esperienze, un’azienda piccola dove avevo la responsabilità di tutte le divisioni e potevo rendermi conto delle conseguenze di ogni scelta. Sono felice di aver avuto la possibilità di acquistare preziosi vigneti per la Prunotto e di aver posto le basi per una realtà sana e ben equilibrata.

L’essere figlia del marchese Piero Antinori, portare un nome così importante, nel corso della sua carriera è stato più un vantaggio o uno svantaggio?
Come sempre, si hanno sia vantaggi che svantaggi, ma direi più vantaggi. È sicuramente più facile – e fa anche piacere – quando si va all’estero e ci si presenta con un nome che tutti conoscono, ma si ha anche la sensazione che la gente si aspetti di più da qualcuno che ha una lunga storia alle spalle. Bisogna essere sempre all’altezza del nome.

Oltre che vini di qualità, Marchesi Antinori è celebre anche per essere l’azienda del settore più redditizia del mercato italiano. Quali sono le vostre peculiarità, che possono essere prese a modello anti-crisi?
Oltre alla qualità della produzione, che ci viene riconosciuta da sempre, direi una buona dose di innovazione in tutti i settori, dalla distribuzione alla logistica. Puntiamo a un miglioramento continuo in tutti gli stadi dell’azienda affinché questa sia competitiva non solo dal punto di vista dei costi, ma anche del prezzo finale del prodotto, in modo da avere un margine sempre sotto controllo. In realtà, non bisogna rincorrere solo il fatturato – abbiamo avuto anche anni con ricavi inferiori – ma un buon Ebitda. Quello del vino è un mondo abbastanza ciclico, bisogna quindi non pensare solo ai periodi di vacche grasse, ma prepararsi anche agli anni in cui le cose non andranno sempre al meglio.

Parlando di crisi, come l’avete affrontata?
Ci sono momenti in cui la crisi in certi mercati si fa sentire di più e in altri meno. L’essere quindi presenti in tanti Paesi, aver intrapreso in passato la strada dell’esportazione, ci ha aiutato ad affrontare la recessione italiana ed europea. E soprattutto, negli anni abbiamo sempre puntato sull’immagine e la qualità dei prodotti, che ci hanno permesso di non dover combattere la battaglia del prezzo ponendoci al riparo da problematiche più pressanti.

Avete dovuto affrontare tagli del personale?
Per fortuna non abbiamo mai avuto – e speriamo di non avere – necessità di licenziare qualcuno perché l’azienda andava male. Diciamo che siamo stati attenti nelle assunzioni: meglio una in meno che una di più. È una cosa da cui da sempre siamo molto attenti, anche quando in alcuni anni abbiamo un carico di lavoro un po’ più elevato. Meglio muoversi a piccoli passi, senza mai esagerare e premunirsi quando i conti vanno bene.

Tornando indietro di 10 anni ci sono scelte che non farebbe?
Le scelte possono essere sempre migliorate. Ma quella di continuare a insistere sulla qualità è stata premiante. Se poi entriamo nel dettaglio, ci possono essere state joint venture su cui si sarebbe potuto lavorare di più, sia dal punto di vista dei risultati che delle funzionalità.

Entriamo nel tema della globalizzazione e dell’avvento delle nuove tecnologie. Che effetto hanno avuto su Antinori?
Per quanto riguarda la globalizzazione, vista come apertura verso nuovi mercati e l’esportazione dei nostri prodotti all’estero, ha portato molti aspetti positivi. Dal punto di vista delle nuove tecnologie, invece, certamente il Web ha provocato cambiamenti, forse più per i clienti che per noi. Oggi su Internet si hanno a disposizione informazioni su ciascun prodotto che 30 anni fa erano irreperibili e questo ha sviluppato nei consumatori la volontà di venire a vedere dove nascono i nostri vini. Per noi è un’opportunità in più, perché alla fine riusciamo a incontrare direttamente chi li gusta. C’è anche un rovescio della medaglia: l’avvento di Internet ha influito sull’autorevolezza della stampa specializzata che, per diversi motivi – tra cui la crisi della carta stampata e l’avvento dei nuovi blogger – fatica a raggiungere il pubblico finale. Certamente si è generata un po’ di confusione: è cambiata la percezione dei consumatori nei confronti dei prodotti di qualità, non tanto di quelli storici, ma di quelli nuovi. Su questo possiamo e dobbiamo lavorare.

Pensate di puntare sull’e-commerce?
Non vendere direttamente è stata una scelta ponderata. Per noi è molto importante che i nostri prodotti più conosciuti siano presenti nella ristorazione e in posti dove godano di una certa visibilità. Inoltre, siccome le quantità dei vini storici non sono elevatissime, non abbiamo bottiglie in più da poter vendere on line. Per quanto riguarda gli altri vini, quelli di minor prezzo, c’è la difficoltà legata ai costi di spedizione: comprare bottiglie di Santa Cristina via Internet non è interessante per il consumatore. Non è detto, però, che nel momento in cui si evolverà la catena logistica, ci sarà un rinnovato interesse da parte nostra.

All’estero ci sono Paesi in cui Antinori è più apprezzato?
Stati Uniti e Germania sono i mercati di riferimento per l’export, lì i vini italiani sono molto apprezzati. Anche il mercato asiatico si sta sviluppando, anche se la Cina, almeno nel vino, è molto più indietro di quanto si possa pensare. C’è poi la Russia, che per noi non è più una novità – a parte la crisi che ora sta vivendo a causa dell’embargo –, l’Azerbaijan, il Kazakhstan… Purtroppo l’interesse sul vino va di pari passo allo sviluppo economico di un Paese, che va di pari passo a quello del petrolio.

Dopo trent’anni di esperienza, oggi è diventata vicepresidente della società. Quali sono, secondo lei, le caratteristiche che un imprenditore dovrebbe avere?
Sono le stesse che doveva avere una o due generazioni fa, salvo essere un po’ più reattivo, visto che il mondo gira molto più veloce. Nel nostro caso abbiamo doveri di responsabilità verso la terra che gestiamo e verso le persone che lavorano con noi, senza dimenticare la responsabilità di tramandare una serie di valori alla generazione successiva. Sembrano poche cose, ma non lo sono. Sono basilari. Bisogna stare attenti affinché l’azienda cresca sostenibilmente e coltivare la terra nel rispetto dell’ambiente. Noi lo facciamo, ma dobbiamo anche insegnarlo ai giovani. Servono serietà, onestà, impegno.

Quanto conta per voi l’attaccamento dei dipendenti all’azienda?
È fondamentale perché, oltre alla mission, le persone sono l’anima stessa dell’azienda. E quando sono coinvolte, ne condividono i valori, diventa tutto più facile. Molti dei nostri dipendenti sono entrati quando erano molto giovani e ci sono rimasti per tutta la loro vita lavorativa. Non è necessario che arrivino qui conoscendo la nostra storia e i nostri valori: lavorando qui “si imbevono” della cultura aziendale.

Dopo più di 600 anni, 26 generazioni, crede che i valori di Marchesi Antinori siano gli stessi di sempre?
Difficile dire se nel 1300 fossero esattamente gli stessi, perché la società è cambiata. Ma i valori di fondo, l’attaccamento alla terra e il rispetto dei suoi frutti ritengo siano ancora gli stessi. Sono quelli che ci hanno permesso di arrivare fino a oggi.

Si dice che il vostro successo sia dovuto a scelte innovative e coraggiose. Quali sono state secondo lei?
La prima è stata quella sul Tignanello, che negli anni ‘70 è uscito dagli schemi della denominazione e, attraverso varietà non autoctone, un cambio di impostazione della vinificazione e nell’affinamento, è diventato uno dei simboli del rinascimento qualitativo del vino della zona del Chianti. Della sua produzione non ha beneficiato solo Marchesi Antinori, il suo successo si è riflettuto anche sugli altri produttori: è stato in quel momento che stampa e consumatori stranieri si sono resi conto che potevano essere prodotti vini di qualità anche nelle nostre zone. Fu un’innovazione tecnologica, filosofica e di processo, che tra gli anni ‘70 e ‘90, prima con il Tignanello e poi con il Cervaro della Sala, ha attirato l’attenzione sulla Toscana, l’Umbria e su di noi. Le scelte di mio padre sono state decisive per il cambiamento della nostra cultura. Ha ereditato una azienda molto piccola, che è cresciuta nel tempo.

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Da sinistra, Albiera Antinori con il padre, il marchese Piero, e le sorelle Allegra e Alessia. Tutta la famiglia è coinvolta in prima persona nelle attività aziendali. Le decisioni strategiche? In genere si prendono a tavola (foto © Mauro Puccini)

Sette tappe nella storia di Marchesi Antinori

  • 1180 – Tutto inizia con Rinuccio di Antinoro, che si dà alla produzione del vino al Castello di Combiate, nella campagna fiorentina. La storia di famiglia subisce una svolta quando il castello viene distrutto durante un assedio. Gli Antinori si trasferiscono a Firenze.
  • 1385 – Il 19 maggio Giovanni di Piero Antinori si unisce alla Corporazione dei Vinattieri. La famiglia entra ufficialmente nel business del vino;
  • 1506 – Su consiglio di Lorenzo de’ Medici, Niccolò Antinori acquista nel centro di Firenze, per 4 mila fiorini d’oro, la residenza che diventerà Palazzo Antinori. È oggi di proprietà della famiglia;
  • 1971 – Niccolò Antinori e suo figlio Piero, con il supporto dell’enologo Giacomo Tachis, avviano la “revisione critica del Chianti” che porta alla nascita del Tignanello. È il primo a essere ribattezzato dagli americani “Super Tuscan”;
  • 1984 – Il marchese Piero Antinori apre la porta a un socio esterno alla famiglia: la Whitbread. Pochi anni più tardi lo stesso marchese impegnerà i suoi fondi e Palazzo Antinori per riprendersi le quote e gestirle in autonomia con le figlie Albiera, Allegra e Alessia;
  • 2012 – Inaugurazione della cantina Antinori nel Chianti Classico. Aperta al pubblico, è visitabile su prenotazione;
  • 2023 – Marchesi Antinori cresce nella Napa Valley, dove è presente dal 1985, con l’acquisizione della rinomata Stag’s Leap Wine Cellars.

Intervista pubblicata sul numero speciale L’anima delle imprese di agosto 2015 – Articolo aggiornato il 12 maggio 2023

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