Una storia di successo tutta italiana quella di Kiko, brand di beauty e cosmetica nato nel 1997 a Milano, e cresciuto in maniera esponenziale grazie a una politica di prezzi concorrenziale e a un’immagine fresca, giovane e molto legata alle tendenze moda. Diventata in breve tempo una delle eccellenze della cosiddetta Beauty Valley, il distretto che si estende nell’area tra Milano, Como, Bergamo e Crema in cui si produce il 60% della cosmetica mondiale, l’azienda negli ultimi anni ha vissuto tuttavia turbolenze tali da chiudere il 2017 con un ebitda di 30 milioni di euro, il più basso della sua storia. Da qui l’esigenza di un rilancio e di un nuovo piano strategico: per questo ruolo è stata chiamata Cristina Scocchia, già Ceo di L’Oréal Italia, con la quale abbiamo fatto un bilancio del suo primo anno al timone e qualche considerazione sul futuro.
Il cambiamento è appena cominciato e già i risultati sono superiori alle aspettative, quali sono stati gli errori nella precedente strategia aziendale?Quando un’azienda cresce in modo impetuoso e apre molti punti vendita possono nascere delle problematiche. Noi siamo cresciuti troppo in fretta, tra il 2014 e il 2017 abbiamo aperto oltre 400 punti vendita in 20 Paesi diversi, e questo sforzo ha drenato focus e risorse economiche.
Lei è stata incaricata di strutturare un piano di rilancio in tre anni. Quali sono le fasi principali di questo nuovo corso?Tenendo fermo l’obiettivo, cioè attuare un rapido e intenso processo di trasformazione e riorganizzazione volto ad aumentare l’efficacia finanziaria e operativa dell’azienda, le strategie riguardano diversi aspetti. Innanzitutto ridefinire la presenza geografica, che è fondamentale in un’azienda come Kiko, che è un brand ma è anche un retail. Restare in mercati come gli Stati Uniti, in cui scontavamo poca awareness del marchio e la concorrenza di brand già forti sul territorio come Estée Lauder, Procter & Gamble, L’Oréal non era più una priorità strategica. Senza contare che il retail negli Stati Uniti è molto in crisi, nel 2017 sono stati chiusi 7.700 punti vendita nei vari settori merceologici, cosmetica compresa. Decidere cosa fare in un piano strategico non basta, bisogna anche decidere cosa non fare. Tenendo presente che Kiko già fattura il 70% all’estero, ma prevalentemente in Europa, abbiamo puntato su una decisa apertura verso i mercati del Medio ed Estremo Oriente, soprattutto Cina e India. La strategia numero due è stata investire nel canale e-commerce, che rappresenta il 7% circa dell’estetica mondiale; noi eravamo al 3,5 quindi c’era una buona finestra di crescita. Non solo nell’e-commerce di proprietà, ma anche all’interno di e-shop di terze parti. La terza strategia su cui abbiamo investito è il miglioramento dell’operatività per liberare risorse da reinvestire nella crescita. Ci tengo a precisare che il nostro è un piano di rilancio, non di riduzione dei costi, per il quale sono stati stanziati 90 milioni di euro di cui 25 sono destinati all’it e al miglioramento del supply chain.
È stato strategico l’ingresso di Peninsula nell’azionariato aziendale per questo rilancio?Peninsula si è rivelato un partner molto collaborativo, sono entrati in azienda ad agosto 2017, quando il piano industriale di rilancio era già definito, e hanno accettato in toto le nostre proposte. È stata una grande iniezione di fiducia da parte loro e al termine del primo anno possiamo confermare la bontà delle scelte fatte. Abbiamo chiuso molto al di sopra degli obiettivi, cioè a +37% di ebitda verso il 2017, a 41 milioni e mezzo di euro, risultati più che positivi in un momento di passaggio, con il cambio di strategia e l’ingresso di un nuovo partner.
Quanto ha pesato su questi risultati il nuovo posizionamento verso i mercati dell’Est?Molto, perché il fatturato su questi mercati è cresciuto del 54% rispetto al 2017, ma su questi risultati ha inciso anche la presenza potenziata sui canali e-commerce che da sola ha segnato un +28%. Fondamentale è stata la partnership con YJH, che in Italia non è un’azienda molto conosciuta ma che in Cina è una delle tre aziende cosmetiche quotate con una capitalizzazione di mercato di oltre 1 miliardo di dollari e si occupa in esclusiva della distribuzione di prodotti online. Con loro apriremo nuove piattaforme ogni nove mesi, la prima è stata Tmall nell’estate 2018 e l’ultima JD in cui siamo entrati poche settimane fa. La Cina per noi è un mercato strategico al punto che abbiamo messo insieme un team che si occupa di creare linee ad hoc, puntando su colori e texture che si adattino alla pelle e ai gusti delle consumatrici locali, supportato naturalmente da campagne di marketing mirate. Tmall ha dichiarato che, tra tutti i brand lanciati l’anno scorso, noi siamo risultati tra i top 6. Ci sembra un ottimo risultato, tenendo conto che lo scontrino medio, per quanto ci riguarda, è sensibilmente più basso rispetto ad aziende che propongono abbigliamento, per cui significa che abbiamo venduto una grande quantità di pezzi. Visto il trend, abbiamo aperto con Nikka e Myntra in India, con Trendyol (branca di Alibaba) in Turchia e, per quanto riguarda l’Europa e gli Stati Uniti, abbiamo contratti con Amazon.
Questi marketplace puntano al ribasso, come riuscite a mantenere un margine operativo?Le negoziazioni non sono state banali, ma abbiamo ottenuto che gli sconti proposti siano in linea con quelli che si trovano negli altri canali. Tutti i nostri negozi in un Paese devono avere le stesse politiche di prezzo, sia online che nel retail fisico.
Rispetto a competitor come L’Oréal o Max Factor avete deciso di non andare nella Gdo, non è un controsenso in un’ottica di potenziamento della supply chain?Crediamo che il nostro prodotto sia di alta qualità con il fascino del made in Italy, con un design e un appeal legato al mondo del fashion e della moda, e un prezzo interessante. Il flagship store dà la possibilità di spazi ampi, assortimenti completi, ma soprattutto consente l’impiego di personale formato in grado di dare consigli mirati, fondamentale per garantire una customer experience di livello.
Finita la fase di rilancio, in che direzione andrete?Per ora parlare di scenari è un po’ prematuro, non che non ne abbiamo ma sono ancora in fieri. Nel corso del 2019 inizieremo a ragionare sul piano industriale a partire dal 2021, finita la fase di rilancio, anche sulla base dei risultati in progress. Quello che posso dirle per certo è che da quest’anno ci siamo aperti al franchising. Ora Kiko è presente in 22 Paesi con 900 negozi, però il mondo è grande e abbiamo deciso di utilizzare il meccanismo del franchising per espanderci ulteriormente in maniera più efficace, e il primo è stato aperto a metà marzo vicino a Tel Aviv, in Israele, ma ne seguiranno molti altri. Altre aperture in formula franchising sono già previste in tre, quattro Paesi entro la fine dell’anno e altrettante per il 2020, tutte nell’area del Middle e Far East. Per ora non si mischieranno le due formule, dove siamo presenti in forma diretta resteremo tali, mentre nei nuovi territori entreremo con la formula franchising. I risultati di questa operazione tracceranno la via per quello che succederà dopo.
Il mondo sta andando verso l’e-commerce e voi aprite nuovi punti vendita, siete in controtendenza?Il retail sta vivendo un momento molto sfidante, soprattutto negli Stati uniti e in Inghilterra, mentre in Oriente è ancora in crescita, e le nostre attuali strategie rispecchiano proprio queste tendenze economiche. Ma ci tengo a precisare che chi fa bene retail può continuare a crescere nonostante tutto. Il nostro fatturato 2018 è sostanzialmente stabile (596 mln) nonostante la chiusura di 137 negozi, significa che i punti vendita che restano registrano un trend favorevole delle vendite.
Lei è donna e proviene da un ruolo di responsabilità in un altro grande brand di cosmetica e beauty. Quanto ha inciso sulla sua performance in Kiko?In Kiko ho portato un bagaglio di 20 anni di esperienze, a cominciare da Procter & Gamble per finire con l’Oréal. Quanto al fatto di essere donna, è vero che nella cosmetica devi avere quello che si chiama l’eye for beauty, ma ci sono uomini altrettanto bravi. Se passasse il messaggio che ci sono categorie merceologiche per cui siamo competenti e altre no, sarebbe una sconfitta per tutte le donne.
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