Al momento del suo arrivo, il gruppo Sisal aveva da poco celebrato i 60 anni di attività. Quasi un decennio dopo, i festeggiamenti per il 70esimo compleanno dell’azienda sono stati accompagnati da fatturati raddoppiati e redditività in costante crescita (15 miliardi di turnover e circa 2 mila dipendenti). Ed Emilio Petrone ha realizzato tutto questo negli anni più difficili della crisi, di fronte a uno scenario mutevole. In un mondo che sembra avviato verso una nuova svolta, meno globalizzata e più chiusa in se stessa, quali sono le sfide e le opportunità da cogliere? «Forse ci sono stati degli eccessi che vanno concretamente gestiti», sostiene l’amministratore delegato di Sisal. «In Europa all’ordine del giorno c’è il tema della crescita, come se fosse un’urgenza. Ma per un’economia matura come la nostra, l’1,6%-1,7% di pil in più di cui parlano le previsioni Ocse non è un dato bassissimo. Certo, non possiamo pretendere di avere i numeri dei Paesi emergenti».
Lei ha avuto un’importante esperienza in Sara Lee, ha guidato Mattel anche a livello internazionale e oggi è membro dell’American Chamber of Commerce in Itay. Quale sarà il ruolo degli Stati Uniti nei prossimi anni?
Il cambiamento più grande dell’amministrazione Trump è nella comunicazione, nel modo di relazionarsi all’esterno, che è diventato più brusco e disintermediato. Dal punto di vista strategico, non penso ci saranno sconvolgimenti enormi. Alcune politiche cambieranno, soprattutto nella sanità. L’approccio più interessante potrebbe essere il taglio delle tasse sulle imprese…
I manager d’Oltreoceano sono alla finestra. Quali sono le differenze tra lo stile americano e quello europeo?
C’è una differenza fondamentale tra la cultura manageriale degli Stati Uniti e la nostra. Lì si programma molto di più. Si dedica una grossa fetta di tempo alla definizione dei business plan, andando nei minimi dettagli. Questo permette poi di delegare con più libertà nelle fasi successive, dai vertici fino ai senior e ancora più in basso. Il tutto viene fatto partendo da analisi numeriche, insomma dai fatti più che dalle opinioni. Su una base di dati oggettivi, si condivide un piano che ciascuno sarà chiamato a realizzare. Per esempio, in Mattel avevo incontri periodici con il Ceo per aggiornamenti sul business, ma duravano pochi minuti se il gruppo andava bene e poi non ci sentivamo più per settimane. Nelle aziende italiane, invece, c’è la tendenza al co-management, dove chi comanda cerca di fare il lavoro dei propri sottoposti e perde di efficienza.
Questo danneggia anche chi dovrebbe imparare da loro…
Certo. Se pianifichi bene e rendi responsabile quelli che ti circondano, questi saranno più motivati e cresceranno più in fretta. Qui s’innesta anche il terzo aspetto che fa la differenza, e cioè la meritocrazia. Ho visto con i miei occhi, e attraverso la mia esperienza, come le aziende Usa ricompensino, sotto l’aspetto delle responsabilità e della retribuzione, le persone che aggiungono valore al gruppo e agli azionisti. Così una buona pianificazione, la responsabilizzazione delle persone e il premio per dei risultati – o la sua negazione, perché gli americani sono duri con chi non li raggiunge – creano un sistema pragmatico, dove tutti puntano a dare il meglio.
In Mattel si ritrovò a guidare 32 Paesi dell’area Seemea (South East Europe, Middle East and Africa). Oggi sempre più manager hanno responsabilità su mercati diversissimi. Come si fa a tenerli insieme?
Serve innanzitutto un grande sforzo di comprensione di queste culture. Devi passare molto tempo con le persone. Io ero perennemente in viaggio dalla Polonia alla Turchia fino al Nord Africa, magari per mesi quando c’era da aprire una nuova filiale. Bisognava comprendere il mercato, studiarne le potenzialità e scovare dei talenti cui affidarne poi la gestione. Non c’è una ricetta magica per riuscirci, ma di sicuro devi spogliarti del vestito del manager italiano per indossarne uno sovranazionale. È una delle sfide più interessanti di questo lavoro.
Il Dna tricolore può aiutare in questo?
I manager italiani sono in media molto preparati, e questo aspetto forse viene troppo spesso sottovalutato. Non hanno niente da invidiare ai concorrenti provenienti magari da università dai nomi altisonanti, che devono la loro notorietà spesso solo a una buona rete di networking, marketing e comunicazione. In fondo, siamo abituati a vivere in un Paese che non pianifica bene e ti chiede uno sforzo per sopravvivere: questo torna utile nell’affrontare i problemi quotidiani e nell’adattare strategie globali a realtà diversissime. Quando si riesce a innestare la rigorosa impostazione anglosassone sul nostro modo di fare, nasce un mix incredibile. Ed è quello che ho provato a fare in Sisal.
Ha deciso di cambiare il volto di un’azienda del settore gaming per trasformarla in una protagonista dei servizi di pagamento (SisalPay). Com’è nata questa strategia che ha reso Sisal una delle prime aziende private del Paese?
Siamo stati i primi a guardare in maniera decisa al consumatore finale. Abbiamo preso la nostra azienda e deciso di gestirla come se si occupasse di largo consumo, guardando al mercato. Questo cambio di prospettiva ha fatto nascere le idee: abbiamo capito, per esempio, che le persone mentre giocano al SuperEnalotto potrebbero voler pagare una bolletta o ricaricare il telefono. Da lì è arrivato tutto il resto.
L’anno scorso Sisal è stata acquisita da un soggetto estero, Cvc Capital Partners. Cosa risponde a quelli che agitano lo spettro della “colonizzazione”?Io la vedo in maniera un po’ diversa: abbiamo attirato in Italia un miliardo di investimenti esteri. È uno dei temi dell’economia tricolore e il governo sta facendo molti sforzi per rendere la Penisola più attrattiva. Oggi lo siamo meno di quanto dovremmo. Per migliorare questo aspetto, serve un cambio di comunicazione: dobbiamo iniziare a parlare meno dei nostri problemi e promuovere di più i nostri punti forti. Siamo un Paese bello, dove è fantastico venire a lavorare, e con potenzialità inesplorate. Ma serve anche più serietà: troppo spesso in Italia per inseguire risultati a breve si cambiano le regole del gioco, si modificano le concessioni o si alzano le tasse. E il sistema perde credibilità.
Qual è la prossima frontiera di Sisal?
L’anno scorso abbiamo avuto un turnover di 1,5 miliardi dal digitale e vogliamo incrementare gli sforzi in questo campo. Vogliamo dare al consumatore un’esperienza completa, permettendogli di usufruire dei nostri servizi da casa, in movimento e offline, nei nostri punti vendita diretti e indiretti. Abbiamo da poco siglato un importante accordo con l’Agenzia per l’Italia digitale, per partecipare al progetto PagoPA, iniziativa strategica per la digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, che consente a cittadini e imprese di effettuare e gestire pagamenti in modalità elettronica verso la PA, con estrema sicurezza e semplicità. La digitalizzazione è un’opportunità enorme per il nostro Paese, ma va anche gestita delicatamente: serve un piano complessivo di sviluppo, capace di trovare anche una compensazione rispetto all’iniziale perdita di posti di lavoro dovuta all’avvento della tecnologia.
A proposito, uno dei problemi più evidenti è la disoccupazione giovanile. Che messaggio darebbe a un ragazzo che si avvicina al mondo del lavoro?
Non è facile rispondere. I ragazzi devono guardare oltre l’Italia e non mettersi barriere. Le opportunità ci sono: aree come moda, enogastronomia o agricoltura offrono ancora tanti spazi da valorizzare. L’importante è non scegliere la strada battuta da tutti. E le aziende devono fare la loro parte: in Sisal abbiamo assunto 1.200 persone dal mio arrivo. Con la crescita, l’occupazione riprenderà.
Bisogna insegnare ai giovani anche a gestire il fallimento. Se ne discute molto nelle grandi scuole di business: c’è stato un errore che nella sua carriera l’ha aiutata a migliorare?
Ce ne sono stati tanti. Il mio approccio è stato quello molto americano del coaching, del farsi aiutare. E ora cerco di essere io stesso un mentore per chi me lo chiede. Fa bene avere un riferimento laterale, che magari ha vissuto esperienze simili, ma non fa parte della tua famiglia, dell’ambiente universitario e non è il tuo capo diretto. Qualcuno cui chiedere un consiglio, magari anche sul primo lavoro da intraprendere.
Gli amministratori delegati di grandi aziende hanno ancora tempo di sognare?
Bisogna sognare e guardare avanti. Sisal ha 70 anni, ma per continuare ad avere successo già oggi si deve immaginare e programmare dove saremo tra cinque o dieci anni. E questo è il mio compito.