I più ricorderanno certamente lo spot di un noto marchio di pasta il cui fortunato claim recitava “Silenzio, parla Agnesi”… Ebbene, lo stesso effetto (o giù di lì) si genera nel mercato della pubblicità quando a parlare è GroupM – la media holding del gruppo Wpp che riunisce i centri media Wavemaker, Mindshare e MediaCom – spingendosi a fare previsioni sull’andamento degli investimenti adv nel nostro Paese. Questo perché la loro mole è considerata un termometro dell’economia: quanto, dove e perché le aziende scelgono di spendere i loro (sempre più magri e oculati, a dire il vero) budget pubblicitari rende l’idea di come si muovono i singoli settori e quali sono quelli più o meno in salute, così come il flusso delle inserzioni misura il livello di ottimismo che circola nelle aziende. Quindi, parlare con Massimo Beduschi, Ceo e Chairman di GroupM Italia (oltre che Chief Operating Officer di Wpp nel nostro Paese), equivale – grosso modo – a chiedere a un medico specialista di fornirci una sintesi della cartella clinica in cui versa il nostro sistema produttivo. E, di solito, Beduschi non è mai parco nel fornire indicazioni.
Con un 36,8% di quota di mercato e un amministrato pari a 3,38 miliardi di euro nel 2018, GroupM si conferma il più grosso agglomerato di centri media in Italia. Mentre voi continuate a crescere (+6%) gli investimenti pubblicitari languono, che stime fate per fine 2019?Le nostre previsioni indicano un -1,3% che, nel caso in cui si dovessero confermare alcune evidenze di mercato, potrebbe diventare un -2%. Si tratta però di una stima parziale, che non tiene conto – perché allo stato dell’arte è impossibile fare altrimenti – delle dinamiche in atto che oggi rendono molto più complicato il nostro mestiere. Mi spiego meglio. Da una parte c’è il mercato della pubblicità tradizionale, che è in calo, dall’altro esiste invece la raccolta degli over the top, nella fattispecie Google, Facebook e Amazon, che cresce. Solo che quest’ultimi non forniscono dati sulla loro attività (in Italia come all’estero), che peraltro è utilizzata per larga misura da una categoria di investitori – aziende piccole e medie – che solitamente non è neanche monitorata dai centri media, bensì terreno d’elezione delle directory di Pagine gialle. Pertanto, allo stato dei fatti, non siamo in grado di dire se il digital crescerà tanto da andare a compensare le perdite della raccolta tradizionale. Si sa solo che negli ultimi dieci anni siamo passati da un investimento medio di 10 miliardi di euro a 8 miliardi, mancano all’appello 2 miliardi che gli Ott al momento sono ben lungi da poter recuperare.
Eppure, ha dichiarato che a breve la quota digitale arriverà a superare il 50% della raccolta.Lo dico sulla base di quanto sta accadendo all’estero: in questo momento internet in Inghilterra supera il 60% della raccolta, in Francia è al 43%, in Spagna la situazione è simile alla nostra, mentre la media europea è al 43%. È ragionevole pensare che nel giro di 3-5 anni il digital anche da noi si avvicinerà al 50%.
Questa complessità come si ripercuote sul vostro lavoro?Queste piattaforme tecnologiche hanno un grado di complessità e di innovazione continua che richiede formazione e competenza ad altissimo livello: manteniamo quindi la nostra centralità a supporto delle aziende, dalle quali siamo percepiti oltre che come intermediari come consulenti in grado di utilizzarle al meglio. Questo richiede ovviamente da parte nostra continui investimenti, soprattutto nell’area del digitale.
Immagino si tratti di una consulenza che si muove sull’onda dei big data, il “nuovo petrolio” dell’era digitale.Già, anche perché i dati sono il business degli over the top e delle aziende tecnologiche, mentre la pubblicità è solo una risorsa di secondo livello per Google, Amazon e Facebook: la loro forza sta nell’avere platee planetarie di miliardi di utenti, cifre onestamente non paragonabili anche ai più grandi broadcaster del mondo. I percorsi dei loro utenti diventano dati preziosissimi per le aziende che vogliano fare ricerche e comunicazione sulla loro potenziale clientela. Proprio per questo la spendibilità di questi dati è diventata un tema caldo che coinvolge la tutela della privacy, del copyright della brand safety, l’antitrust, il regime di tassazione, e chi più ne ha più ne metta. La nostra abilità, invece, risiede nella capacità di trasformare i big data in smart data, ossia informazioni di qualità capaci di generare valore per il business.
Eppure, c’è chi dice che – in occasione dell’approvazione della recente direttiva europea sul copyright – si sia persa un’occasione preziosa per cominciare a regolamentarne gestione e commercializzazione.Di fatto è innegabile che questi soggetti abbiano assunto un potere economico, politico e industriale così stringente che è diventato difficile assoggettarli a regole. Tanto che oggi si tenta di intervenire solo su singoli aspetti, vedi il copyright, ma è difficile regolamentare tutto l’insieme di quel che comporta le loro attività, che sono ormai estremamente complesse e articolate. Tornando al discorso dei dati, l’aspetto importante è che esistono di certo ambiti in cui si registrano impatti sociali, culturali, evolutivi ai quali è necessario prestare massima attenzione per non danneggiare le generazioni future.
Ciò significa che se gli ultimi sono stati i decenni dei sondaggisti, il presente e il futuro sono dei data scientist? Si tratta già di una “scienza”, di una capacità di analisi già acquisita o abbiamo ancora molto da imparare?È una scienza che stiamo accrescendo, che diventerà sempre meno probabilistica e più puntuale. Quello del data scientist o del data analytics è un lavoro basato sui numeri dai quali estrarre informazioni, e sul quale abbiamo già raggiunto un buon livello di padronanza. Per questo, per esempio, in GroupM ci stiamo sempre più attrezzando per costituire reparti capaci di tradurre tempestivamente in informazioni utili questi numeri per fornirli elaborati e clusterizzati ai nostri clienti.
È per questo che avete costituito al vostro interno GroupM Digital?Anche per questo, di pari passo con lo sviluppo del mercato, essendo il nostro nuovo hub digitale concepito per fornire alle aziende servizi avanzati di consulenza per il marketing online e il business; al suo interno abbiamo creato quella che noi definiamo un’Academy, una sorta di laboratorio che accredita persone molto junior, le forma e permette loro un percorso di crescita verticale, all’interno della stessa struttura, od orizzontale, in interscambio tra le varie agenzie. Ma GroupM Digital è molto di più.
Che vi consente di fare cosa?Tantissime cose. GroupM Digital è in grado di elaborare la grande quantità di dati di cui disponiamo grazie a mCore, la Data Management Platform del gruppo che racchiude gli identificativi digitali anonimi di 27 milioni di italiani che navigano, pari a circa l’’ 80% della popolazione online: 50 milioni di interazioni giornaliere elaborate in più di 600 categorie di interessi. Abbiamo quindi gli elementi per produrre elaborazioni come ad esempio le “Otto Italie digitali”, un’analisi sugli italiani molto più precisa e dettagliata delle indagini campionarie realizzate dagli istituti di ricerca tradizionali: abbiamo individuato otto cluster rappresentativi che – sulla base degli interessi navigati, cioè di quello che gli italiani fanno e non di quello che dicono di fare – ci danno informazioni più dettagliate sulle abitudini e le preferenze delle persone, prendendo in considerazione le variabili di età, cultura, estrazione sociale, economiche, familiari, gusti, stili di vita, etc etc. L’affresco dell’Italia digitale si traduce in un quadro operativo che mette a disposizione dei clienti GroupM oltre 4.500 segmenti di audience pronti a essere pianificati. Detta così sembra una cosa semplice, e lo è, ma richiede una componente di specializzazione, tecnologica e di formazione elevatissima, grazie alla quale possiamo fornire delle clusterizzazioni molto significative, perché profilate sulle esigenze contingenti del singolo investitore.
È in virtù di tali profilazioni che le vostre agenzie hanno sviluppato delle proposte riguardanti l’utilizzo dell’e-commerce non solo come opportunità di distribuzione, ma anche di comunicazione e di crescita delle singole aziende?Certamente. Ormai Amazon ha la stessa funzionalità di Google: chi ricerca un prodotto o chi vuole acquistare online (e non solo, visto che lo consulta anche chi preferisce il negozio tradizionale) va direttamente su Amazon, solo dopo e solo in parte passa sulla pagina e-commerce dell’azienda. Per questo, le aziende devono utilizzare al meglio la piattaforma per poter ottimizzare la loro presenza e trarne massimi vantaggi in termini di business. Perché una cosa è certa, ed è che ormai anche nell’interazione digital nulla può e deve essere più lasciato al caso.
Intervista pubblicata sul numero di Business People, settembre 2019
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