Dai piccoli produttori locali ai grandi importatori esteri, Oscar Farinetti parla con tutti gli attori della filiera che porta l’eccellenza agroalimentare italiana nel mondo. Il problema dell’Italian Sounding lo conosce molto bene. Sul tema, il patron di Eataly e di Fico ha opinioni poco sfumate.
Di Italian Sounding si parla da anni ma il fenomeno pare inarginabile: che fare?Il primo ragionamento da fare è sul significato di questo dato e dire «Che bello». Il fatto che ci imitino, significa che piacciamo e che nel mondo c’è una domanda enorme per i nostri prodotti. Quelli francesi, per dire, sono quasi per niente imitati.
Poi però c’è una seconda riflessione. Bisogna chiedersi come dobbiamo reagire. E la risposta è che fare i poliziotti o affidarsi a regoline e regolette non serve a niente, perché chi vuole imitare un prodotto troverà sempre il modo di farlo. Invece dobbiamo parlare al consumatore finale, raccontare bene la nostra storia, la nostra tradizione, i nostri sapori e insegnargli a distinguere i prodotti italiani dagli altri. Poi ci sarebbe un’altra cosa da fare, di cui parlo da anni.
L’intervista a Oscar Farinetti è un estratto di Bocconi Amari, approfondimento sull’Italian Sounding, pubblicato sul numero di Business People, gennaio-febbraio
Che cosa?Avere un unico marchio Italia e pubblicizzarlo. Avevo fatto uno studio completo, l’ho disegnato, ho ideato la pubblicità, ho proposto persino i testimonial, eccezionali e disponibili a titolo gratuito: Michelangelo, Leonardo Da Vinci, Dante Alighieri, Cristoforo Colombo. Ma è una strada sulla quale non si procede. L’Italia è rimasta ferma mentre l’Europa qualcosa l’ha fatta: un meraviglioso trattato di libero scambio col Canada, il Ceta, al quale hanno lavorato per anni funzionari europei, anche italiani, portando a casa un magnifico risultato, che come sempre è un compromesso. Non possiamo pensare di vincere 10 a 0, ma noi abbiamo vinto 9 a 1, com’è normale quando un colosso da 550 milioni di consumatori fa un accordo con un Paese di 32 milioni di abitanti.
Il suo giudizio è molto netto, ma il Ceta è tema di forti polemiche.È un gran trattato. In primis, abolisce le dogane, cioè le tasse, cosa che per un Paese orientato all’export come il nostro è un gran vantaggio. In secondo luogo, ci ha garantito la protezione per 143 prodotti europei. Di questi 143, 41 sono italiani, quindi abbiamo la quota maggiore. Certo, se fossero stati 60 sarebbe stato meglio, ma prima erano zero. È questa è la strada da seguire e se ne deve occupare la politica. Grazie al Ceta, c’è stato un aumento dell’8,5% delle esportazioni e abbiamo superato per la prima volta i valori francesi. Un successo incredibile, mentre in Italia abbiamo al governo politici che vorrebbero non votarlo, una scelta tafazziana.
Lei parla di promozione ma la stragrande maggioranza delle nostre imprese è di piccole o micro dimensioni. Questo non è un limite alle possibilità di promuovere la propria produzione?No, anzi, il fatto che abbiamo tante piccole imprese è una risorsa, perché il nostro Paese è biodiverso. Dobbiamo metterle in rete. Eataly nel suo piccolo ha portato 1.900 piccole imprese, anche micro, nel mondo. Il problema è un altro. Sa perché facciamo fatica a esportare?
No, perché?Perché non abbiamo la distribuzione. Prenda la Francia. Oggi, in Cina Auchan ha 1.400 supermercati e Carrefour 400 ipermercati. I cinesi pensano che così come la Coca Cola è americana, il vino sia francese. Ma è normale, data la loro presenza in quel mercato. A differenza di quella degli altri Paesi europei, la nostra distribuzione non è mai uscita dai nostri confini. Questo ha delle conseguenze gravissime. La nostra Gdo deve andare all’estero, anche perché è brava, in Italia fa delle cose molto belle.
Eataly copre un’altra fascia.Eataly è una cosa meravigliosa, ha 42 negozi nel mondo, però è una nicchia. Io vendo solo da un certo livello qualitativo in su, ma c’è anche un mercato enorme anche per il prodotto italiano medio/medio-alto. Se la nostra Gdo aprisse a New York, farebbe affari d’oro, e l’Italia potrebbe anche raddoppiare il valore del suo export. È la grande distribuzione normale che deve muoversi; il problema è che non lo fa.
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