Il profitto è solo una delle (tante) priorità di Andrea Illy. Per il presidente di Illycaffè, il successo è una partita che si vince sulla distanza. Non è un rush finale, dove ci si gioca tutto, alla cieca. Semmai, è una sfida a scacchi, un gioco d’intelligenza e responsabilità sociale, scandito da strategie di lungo periodo: quelle basate sul «sogno di offrire il caffè più buono al mondo», sullo «sviluppo sostenibile», sulla continuità generazionale e sulla funzione culturale dell’imprenditoria. Una vision impegnativa, sicuramente più difficile da realizzare rispetto al “mordi e fuggi” del semplice guadagno, ma che ha trovato in questo «imprenditore-manager», come ama lui stesso definirsi, un sostenitore convinto.
Subentrato al padre alla guida di Illycaffè nel 1994, Andrea ha alle spalle una laurea in Chimica presso l’università di Trieste, un Master Executive alla School of management dell’università Bocconi di Milano, nonché svariati pomeriggi trascorsi con il padre a discettare di filosofia di impresa: una materia che ha appassionato da sempre entrambi, diventando il fil rouge di questo passaggio di testimone aziendale. Quadrato, idealista quanto basta perché i valori si possano tradurre anche in numeri, Andrea Illy è diventato anche il numero uno dell’Associazione Altagamma nonché un verace scrittore: suoi sono i libri Il sogno del caffè e Il caffè espresso–La scelta della qualità.
Le chiacchierate con suo padre sembrano averla ispirata particolarmente. Quali concetti ha voluto trattenere più di altri, trasformandoli nell’elemento di continuità tra le vostre due presidenze?
Per me, come per mio padre, l’impresa ha una funzione sociale fondamentale perché è il cardine tra le famiglie e la società. Metaforicamente, le famiglie sono i mattoni con cui si fanno i muri, ossia le imprese. A loro volta, i muri costruiscono la società, gli Stati. Gli stessi numeri dimostrano il ruolo sociale delle aziende: il 90% dell’occupazione è generata dall’impresa privata. Questo vuol dire che migliori saranno le imprese, migliori saranno le società che andremo a costruire. Al pari di mio padre, sono convinto che non si possa prescindere da questa funzione culturale dell’imprenditoria.
Crede che la continuità di guida e di vision siano determinanti per il successo di un brand?
Sicuramente la coerenza nel lungo termine ha rappresentato per noi un fattore di successo. Illy nasce dal sogno del fondatore di offrire il miglior caffè che esista al mondo, e tutta l’azienda è stata letteralmente costruita attorno a questa vision: dal posizionamento della marca all’organizzazione interna, fino alla scelta delle stesse tecnologie. È da oltre 80 anni che non facciamo altro che continuare a perseguire, ossessivamente, tale sogno. E questo lo si può fare solo con una coerenza di lungo termine. Senza contare che lo stesso messaggio di marca ha bisogno di tempo per sedimentarsi sul mercato e qualsiasi discontinuità, sia essa di strategia piuttosto che di cambiamenti degli asset azionari, non fa bene alle aziende.
Qual è invece l’imprinting personale che lei ha dato all’azienda?
Rispetto al passato sono cambiate le dimensioni di Illy: adesso è una società globale, presente in altri 140 mercati. La differente dimensione competitiva e la complessità crescente mi hanno portato a specializzarmi sul marketing, in particolare quello dell’alto di gamma, andando al di là del semplicemente prodotto. Diciamo che, se mio padre era più imprenditore, io cerco di essere un imprenditore-manager.
Una doppia anima imposta dall’attuale scenario di mercato?
Se un imprenditore vuole capire l’azienda, i processi, quale impostazione organizzativa dare, che scelte operare sugli uomini, deve essere prima di tutto un manager: per delegare efficacemente bisogna aver prima maturato un’esperienza. Certo, non si può essere tuttologi, ma si può essere interdisciplinari: come imprenditori, bisogna sapere coprire tutte le principali aree della catena del valore. Oggi, tra l’altro, viviamo nell’era dell’ipercompetizione: questa non deriva necessariamente dall’eccesso dell’offerta, ma anche dal continuo rinnovamento dei modelli di business e dalla costante entrata di nuovi player provenienti da tutto il mondo. Con la globalizzazione sono caduti i confini e si compete ad armi pari con una rivale dello stesso settore, a prescindere dal Paese di provenienza. Questa maggior competizione e la complessità del business necessitano indubbiamente di una maggior preparazione.
Recentemente, ha anche abbracciato il Lh Forum: il movimento che promuove l’economia positiva di Attali, fondata su valori quali solidarietà, altruismo, fiducia, partecipazione, amore per la natura. Tale approccio non rischia di rivelarsi idealista, soprattutto di questi tempi?
Al contrario: è molto sensato. Uno dei pilastri dell’economia positiva, oltre alla sostenibilità, è il lavoro per le future generazioni: consiste nel soddisfare i propri bisogni senza compromettere quelli delle generazioni future. Questo vuol dire lavorare per lasciare un mondo migliore rispetto a quello che abbiamo trovato. Esattamente l’opposto dello short business, figlio a sua volta della dottrina della shareholder company, dove l’azionista è il re dell’azienda e l’unico obiettivo è creare profitto. Una visione chiaramente di breve termine e che, in nome della massimizzazione del profitto, compromette il futuro finendo per rivelarsi molto speculativa. Ora, la speculazione non può certo essere debellata, ma la si può moderare. I principi dell’economia positiva invitano a non esasperare la speculazione, ma a perseguirla entro i limiti di quelli che sono gli interesse del lungo termine.
A differenza di suo padre, a lei sono anche toccati in sorte gli anni horribiles – tuttora in corso – della recessione. Com’è riuscito a tenere la barra dritta e a traghettare la sua azienda nel mare della crisi?
Non mi è toccata in sorte solo la recessione: contestualmente, nello stesso periodo, abbiamo dovuto fronteggiare anche la più alta volatilità dei prezzi della materia mai vista finora. Inoltre lo scenario, in termini di concorrenza, è stato il più virulento degli ultimi dieci anni della storia del caffè. Abbiamo insomma dovuto fare i conti con una crisi nella crisi. Per venirne fuori abbiamo scelto di tirare dritto, senza cercare alibi, facendo un fine tuning accurato dell’organizzazione. Abbiamo sviluppati nuovi prodotti, ci siamo molto concentrati sulla sostenibilità dei modelli di business, abbiamo rafforzato la marca anche con progetti molto ambiziosi l’ultimo dei quali è legato all’Expo. Abbiamo inoltre puntato molto sull’estero, ed è lì che siamo cresciuti particolarmente: ormai il mercato straniero pesa quasi 2/3 sul nostro fatturato.
In qualche modo, crede che la recessione abbia restituito il pallino del gioco all’imprenditore, sottolineandone la funzione strategica?
Sì, perché di fronte alla recessione le possibilità sono solo due: attendere tempi migliori, oppure sfruttare le opportunità esistenti per investire ancora di più. Ed è dimostrato che le aziende che, in tempi di crisi, investono, non solo escono molto meglio dalle difficoltà ma, quando inizierà la ripresa, si troveranno in una posizione competitiva più proficua. Io ho preferito percorrere questa seconda strada, indubbiamente più rischiosa e difficile, ma di cui iniziamo già a vedere i primi frutti.
Addirittura, secondo alcune recenti ricerche, oggi il peso dell’imprenditore sarebbe tale che la sua reputation influenzerebbe per il 50% l’immagine del brand e dunque, di riflesso, le vendite. Si riconosce questo onore (e onere)?
Immagine e reputation sono interdipendenti, anche se trovo che quest’ultima sia la più importante. Se infatti l’immagine è legata al posizionamento della marca, la reputazione è più corporate e rappresenta il capitale di fiducia che un’azienda ha saputo conquistarsi. Si esprime, naturalmente, nella marca, ma nasce dall’impegno sociale e dai comportamenti: è la value proposition, ossia la promessa che una marca fa al consumatore e va ben oltre la promessa del prodotto, coinvolgendo l’esperienza d’acquisto, la personalità della marca, l’affinità elettiva che si instaura con il consumatore. Di questa reputation, noi imprenditori siamo i frontman: la maschera, i porta parola dell’azienda. Ci tengo però a precisare che la reputazione si costruisce in decenni: io ho l’onore di rappresentare una marca e un’azienda storica, con un lungo passato di successi, di cui io ho contribuito solo negli ultimi 20 anni.
Che cosa ha imparato dalla crisi?
Prima di tutto, il tema della massa critica. Mi spiego meglio. Nei periodi di recessione, vengono meno le risorse economiche per poter investire e i grandi player tendono ad approfittarne. La massa critica diventa quindi un problema da gestire. Occorre pertanto evitare il confronto con i grandi player e, contestualmente, operare un’allocazione delle risorse particolarmente oculata. Il secondo grande insegnamento è che quando le organizzazioni, per effetto della crisi, sono messe sotto stress, tendono a esacerbare la complessità presente al loro interno. I conflitti generati sono pertanto più complessi da gestire. Ma da questa lunga recessione – che a mio avviso è in realtà una depressione – ho soprattutto imparato che è possibile raggiungere risultati anche in tempi difficili.
Tuttavia nel 2012, in piena recessione, è stato sedotto dall’idea di fare armi e bagagli e uscire fuori dall’Italia. Che cosa l’ha trattenuta? Se anche c’è stata questa tentazione, si è subito rivelata un’idea poco praticabile per un marchio di alta gamma come il nostro, il cui fattore critico di successo sono proprio le radici che vengono date dal territorio, dalla storia, dalla famiglia… Abbiamo quindi optato per il modello della world class organisation che prevede di spostare, laddove è opportuno, alcuni asset fuori dall’Italia, a eccezione dell’headquarter che rimane in patria.
Da grande conoscitore del mercato estero, cosa dovrebbero imparare gli imprenditori italiani dai loro colleghi?
Noi italiani siamo, dal punto di vista antropologico, individualisti: giochiamo da battitori liberi. Questo ci porta a essere più creativi, forse persino più scattanti perché siamo in perenne concorrenza gli uni contro altri. Al contempo però non abbiamo il vantaggio di far squadra e, quindi, di poter raggiungere attraverso un sistema una massa critica, che in alcuni casi è necessaria. Inoltre, essendo un battitore libero, l’imprenditore-accentratore italiano riesce a gestire la complessità solo entro certi limiti.
Complice il mito di Steve Jobs, oggi va molto di moda parlare dell’importanza del sogno. Un concetto sul quale voi avete addirittura costruito un’intera società, la Illycaffè, nonché le vostre ultime campagne…
Credo che non smetterò mai di sognare perché il desiderio crea una tensione interna verso il futuro, che ti permette di raggiungere traguardi che magari neanche sospettavi. Da solo però il sogno non basta: come ha spiegato Jeffrey E. Garten: «Vision without execution is just hallucination». Lei ha dichiarato: «Per crescere è fondamentale condividere la cultura del prodotto».
Perché bisogna far approfondire al cliente anche questo aspetto?
Non è sufficiente che il prodotto sia aspirazionale e assolva alla propria funzione? Dipende dal prodotto. Nel caso del caffè, si tratta di una bevanda ad alto di contenuto di tradizione e conoscenza: dal ‘600 in avanti, è sempre stato al centro della cultura, delle arti, della letteratura e della scienza in generale. Amo ripetere che consumare caffè è un piacere socio-sensoriale, che va al di là del concedersi una dose di caffeina. Ecco, più si riesce a interpretare questa cultura in senso allargato, più si saprà deliziare il consumatore. Da qui, il nostro impegno a diffondere la cultura del caffè, che ci ha spinto a fondare, nel 1999, l’Università del caffè. Prevede 3 dipartimenti: uno per gli agricoltori; un altro per gli esercenti, che saranno così in grado di dare al consumatore finale un’esperienza più arricchita, e il terzo dedicato proprio ai consumatori che desiderano diventare degli intenditori di caffè.
Intervista pubblicata sul L’anima delle imprese, speciale di Business People di agosto 2015
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