Un approccio alla comunicazione totalizzante, che va dall’obbligo per le imprese di pubblicizzare i propri prodotti all’esigenza – più ampia e alta – di raccontarsi. E poi l’imperativo della responsabilità sociale e ambientale delle aziende e di uno Stato che sappia entrare in connessione con i suoi cittadini. Intervista a Massimo Beduschi, Chief Executive Officer e Chairman di GroupM Italia che prende spunto dal filosofo di Stoccarda
Tra le più grandi centrali di investimento media al mondo – la società gestisce una campagna pubblicitaria su tre a livello globale – la cabina di regia di GroupM è un punto d’osservazione privilegiato per analizzare il mondo della comunicazione di impresa. Ancor di più se l’interlocutore è Massimo Beduschi, oggi Ceo e Chairman di GroupM Italia oltre che presidente della capogruppo Wpp nel nostro Paese, forte di un’esperienza di circa 30 anni nel mondo della comunicazione. In sette domande, abbiamo provato con lui a riassumere come e in cosa è cambiata oggi la comunicazione di impresa. Perché sì, questo mondo si è evoluto rispetto a 5-10 anni fa e, come sottolineato dallo stesso Beduschi, «gli avvenimenti degli ultimi anni hanno accelerato una trasformazione, che però era già nell’aria».
Qual è stato, secondo lei, il fattore scatenante in questo cambio di paradigma?
Dal mio punto di vista sono stati essenzialmente due. Sono concetti abbastanza conosciuti, ma è importante sottolinearli. Innanzitutto, c’è stato un passaggio di potere dall’azienda al consumatore, che oggi ha accesso a più informazioni e può prendere molte più decisioni senza essere influenzato dalla tradizionale comunicazione one to many. Altro fattore importante è stato quello che definirei come una “situazione hegeliana”: il conflitto in Ucraina, ma soprattutto la pandemia e i recenti cambiamenti climatici, hanno portato a una presa di autocoscienza dello spirito, come avrebbe detto il maestro di Stoccarda. Non c’è mai stata tanta attenzione collettiva ai temi di sostenibilità, benessere sociale e attenzione alla diversità e all’inclusione come ora. Il solo aspetto commerciale della comunicazione è andato affievolendosi: le aziende non fanno più pubblicità solo per vendere, ma puntano i riflettori anche sul loro impegno verso l’intero ecosistema. Un tempo si guardava solo al profitto, che – sia chiaro – rimane molto importante, ma non è più l’unico indice attraverso cui vengono misurati il successo e le performance di un’azienda; l’impresa viene valutata anche su altri parametri, che giustamente sono divenuti rilevanti in questi ultimi anni come la sostenibilità e l’impegno sociale. Tutti indici in grado di creare valore.
Una rivoluzione non da poco.
Direi copernicana. Comunicare oggi è davvero un’impresa! E, se mi concede un gioco di parole, l’impresa stessa è diventata comunicazione. Se in passato per questa attività veniva destinato sì e no il 10% del budget e si demandava tutto al direttore marketing, oggi tutti i C-Level, dal Ceo in giù, si occupano di comunicazione, perché sanno che qualsiasi loro dichiarazione può essere ripresa e amplificata sui social.
Si è passati, quindi, da un obbligo commerciale a un’esigenza di raccontarsi.
Esattamente. Tornando al filosofo di Stoccarda, non trovo un’espressione migliore di quell’autocoscienza e di quel processo di miglioramento del divenire che era alla base della filosofia hegeliana. Guardi, ad esempio, la Tv in Italia. Poco tempo fa lo scopo principale della televisione commerciale era di intrattenere e vendere, lasciando alla Rai il compito di educare e informare. Oggi, però – e la prova è arrivata in occasione degli ultimi palinsesti – la stessa Tv commerciale sta cercando di limitare il cosiddetto trash, puntando su aspetti diversi. Il mondo sta andando in quella direzione, e il consumatore che ha più potere premia questo cambiamento. Le aziende, anche se volessero, non potrebbero agire altrimenti. Da qui nasce, purtroppo, anche il fenomeno del greenwashing: “non ci credo, ma lo faccio o lo dichiaro perché so che in questo modo genero ascolto e seguito”. La filosofia del nostro Gruppo è la stessa che consigliamo ai clienti: serve agire con progetti concreti che abbiano un reale effetto sul business, ma anche e soprattutto sul futuro. Solo dopo aver agito ha senso comunicare, il consumatore ha tutti gli strumenti per andare oltre agli slogan e si aspetta che il brand voglia e sia in grado avere un impatto effettivo sulla società e sull’ambiente.
Comunicare bene il messaggio e la buona fede di un’azienda rappresenta una sfida immane sul fronte della comunicazione istituzionale e pubblicitaria.
E in questo contesto realtà come la nostra devono fare un doppio percorso: da una parte andare anche noi come impresa in questa direzione, dall’altra continuare a essere consulenti per le aziende. A loro dobbiamo sottolineare quanto affermato poco fa: non basta più comunicare per vendere, bisogna porsi anche altri obiettivi, far sapere che i prodotti che realizzi rispettano l’ambiente, se non addirittura lo sostengono, e che lavori rispettando la diversità e l’inclusione. Se mi permette, però, in tema di comunicazione d’impresa c’è un argomento caldo che, secondo me, va affrontato ed è quello dell’intelligenza artificiale.
Mi dica.
Non mi spaventa l’impiego dell’intelligenza artificiale di per sé, sono preoccupato dell’uso che alcune persone possono farne per prendere posizioni di vantaggio o arricchirsi a scapito d’altri. È evidente che questo avverrà – è nella natura dell’uomo – però mi schiero dalla parte degli ottimisti. Per essere pragmatico e guardando in particolare al campo del machine learning, il mondo della comunicazione ha oggi a che fare con una quantità mai vista di dati che i consumatori stanno lasciando su diverse piattaforme digitali. Questo permette di definire dei profili degli utenti molto precisi, dando la possibilità alle aziende che investono in comunicazione di raggiungerle nel modo più corretto possibile. Ecco perché nel nostro settore assistiamo a un fiorire di algoritmi e software che permettono di gestire una quantità di dati e a velocità impensabili per il cervello umano, portando a output sorprendenti. Certo, qualcuno potrebbe approfittarne. Con la rilevazione dei gusti di 2 miliardi di persone si potrebbero costruire per mondi creati ad hoc per loro, arrivando a un paradosso simile a quello della filosofia hegeliana: conosci sempre di più di sempre di meno, finché conoscerai tutto di niente.
E questo rischio non la preoccupa?
Fa parte di quell’utilizzo sbagliato a cui accennavo prima. Ritengo che l’intelligenza artificiale vada vista, accolta e gestita in un’ottica di collaborazione. Poi è vero che ci saranno sempre realtà o individui che potranno sfruttare questo potere per controllare le persone. Ma è un rischio che bisogna correre.
Tornando al nuovo modo di comunicare delle aziende, ritiene che la comunicazione pubblicitaria sia diventata, in qualche modo, anche istituzionale? C’è chi sostiene che ormai i confini tra marketing e comunicazione siano scomparsi.
Concordo col fatto che ormai i confini stiano evaporando un po’ come sta avvenendo con la distinzione tra tv pubblica e commerciale, o più in generale tra i vari media se si considera l’influenza del digitale come mezzo oramai trasversale. E, se mi posso permettere, in questo momento le aziende stanno sopperendo all’assenza di un Paese comunicatore. Alcune recenti campagne pubblicitarie si pongono nei confronti dei consumatori con fini riferibili alle Pubblicità progresso. È importante, invece, che in un Paese come il nostro lo Stato parli di più con i propri cittadini: non si fa abbastanza in termini di incentivi e comunicazione per sensibilizzare le persone su temi d’attualità.
Secondo lei, cosa nel modo di comunicare delle imprese italiane andrebbe valorizzato e cosa, invece, stigmatizzato?
La stereotipizzazione dell’italianità è quello che abbiamo visto, purtroppo, anche nella recente campagna dell’Ice riguardante la Venere di Botticelli che mangia la pizza: è sbagliato continuare a insistere e ad alimentare stereotipi che ci fanno vedere agli occhi del mondo come ciò che non siamo, o non siamo più. Bisognerebbe rompere questi preconcetti e valorizzare l’eccellenza e l’innovazione che continuiamo a produrre: dalle macchine di precisione ai brand iconici come Ferrari, al presidio in settori di successo come il design e la moda. Sarebbe importante che tutti, piccole o grandi imprese che siano, enfatizzassero questo aspetto. Oggi la pubblicità costa molto meno, quindi sarebbe possibile comunicare a livello mondiale i casi di eccellenza che abbiamo in Italia. In conclusione, dovremmo credere di più in noi stessi. Se lo facessimo, cominceremmo a comunicare anche in modo diverso. Come italiani abbiamo tanto valore da poter esprimere e trasmettere all’estero e ai nostri giovani, anche attraverso la comunicazione. Ma, lo ammetto, non è impresa facile.
* Ha collaborato Matteo T. Mombelli – Questa intervista è tratta dallo speciale Comunicare è un’impresa, inserto di Business People di settembre. Scarica il numero o abbonati qui
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