È tempo di aziende generative

I segnali sono evidenti: il modello capitalistico tradizionale è giunto al capolinea. Ma non è necessariamente un fatto negativo. Per Rosario Faraci, professore di Economia e Gestione delle imprese all’Università di Catania, il futuro è in questo tipo di società. Ci siamo fatti spiegare cosa significa

aziende generative-Rosario-FaraciProfessore ordinario di Economia e gestione delle Imprese all’Università degli Studi di Catania, Rosario Faraci è anche delegato del Rettore aIl’Incubatore di ateneo, Start-up e Spin-off

Nient’altro che il futuro (Edizioni sindacali). Ma disegnarlo è un atto di coraggio. Prevederlo poi può sfociare in un esercizio retorico. In cui l’errore è dietro l’angolo e l’interpretazione di quel che avverrà può trasformarsi in un gioco da saltimbanchi tra profeti di ventura e cassandre. Ma a Rosario Faraci, professore di Economia e gestione delle imprese all’Università di Catania, non manca certo l’ardore di tratteggiarlo in questo testo godibilissimo in cui almeno lui non si rassegna a concepirlo come distopico e terrorizzante. Anzi assumerebbe, il condizionale è d’obbligo perché solo i prossimi anni potranno darci il responso, tutti i crismi di un mondo in cui varrà la pena vivere. Il progresso verrebbe, sostiene, segnalato da alcuni fatti incontrovertibili che Faraci analizza prendendo come assunto la tesi che il modello capitalistico tradizionale sia ormai al capolinea. L’emergenza climatica impone di riscriverlo, l’uso delle risorse naturale non è più illimitato, il profitto non può assurgere a unico metro di valutazione dell’esistente. Ciò succede perché l’impresa (e l’economia) sono ormai generative. Cioè stanno già partorendo un nuovo modo di governare le organizzazioni complesse.

Eppure, le aziende continuano a mietere profitti, forse più di prima trascinate dall’alta inflazione, e non sembra che davvero qualcuno si stia interrogando sui cambiamenti climatici al di là delle grandi dichiarazioni d’intenti: Cina e India, i grandi energivori, continuano a produrre emissioni di CO2 in enormi quantità.
Capisco le obiezioni, ma ci sono alcuni segnali che mi inducono a pensare che siamo davanti a un cambio di paradigma. È chiaro che questa transizione dovrà subire presto un’accelerazione ed è impensabile che non debba provenire dai tavoli dove sono seduti i Grandi del mondo. Tuttavia, di strada ne stiamo facendo. Le mie considerazioni nascono, però, dal concetto di generatività, di cui vedo la proiezione e il percorso.

Ci spieghi meglio.
L’ho mutuato da quello di generatività sociale, che Mauro Magatti e altri sociologi della Cattolica di Milano stanno provando a declinare negli ultimi anni, partendo dal modello della genitorialità. Riferito all’impresa, la generatività è un fine nobile, più ampio di quello di responsabilità sociale e di sostenibilità, spesso evocati a titolo di risarcimento per i comportamenti irresponsabili di alcune aziende.

Ecco, riconosce che i piani industriali delle imprese vengono spesso giudicati dalla Borsa in maniera positiva se ci sono tagli pesanti ai costi, dunque anche al personale. Quanto di più lontano dal generare benessere. E i manager, diciamolo, reggono alle considerazioni spicce degli azionisti se la riga del margine operativo tiene.
Non lo nego, ma vede la generatività è un concetto che ha in sé la spinta in avanti, l’orientamento al futuro, la tensione all’innovazione e all’imprenditorialità. Quando è riferita al fare impresa, la generatività attraversa le quattro fasi tipiche della genitorialità: desiderare, creare, prendersi cura e lasciare andare, che significano volontà di fare impresa, dar vita a una nuova azienda, prendersi cura di essa e lasciarla andare. Penso ai passaggi generazionali nelle imprese familiari, o all’exit strategy nelle startup, alle quotazioni in Borsa o all’apertura agli investitori. La riferisco pure ai territori. E qui prendo a esempio il modello di Ivrea e del distretto canavese ai tempi di Adriano Olivetti.

Ammetterà che nove startup su dieci falliscono perché basate su business plan irrealistici, dove la domanda di mercato viene sopravvalutata e l’utopia sbandierata…
Certamente, perché sovente la spinta alla nuova imprenditorialità deborda anche nello show business, però spesso c’è una debolezza di fondo nella cultura industriale. Ma pensi allora alle politiche di investimento Esg di tutti i grandi fondi di investimento. Ormai molti investitori stanno rivedendo le logiche di intervento nelle imprese partecipate, ammettendo anche ritorni più lenti sugli investimenti e palesando un atteggiamento più paziente nella remunerazione del capitale. Semmai c’è la considerazione che l’ambiente sia da preservare e che le azioni delle imprese devono essere ispirate al miglioramento della società che ci circonda.

Sì, ma quella del dividendo resiste: i sottoscrittori hanno la necessità di avere un rendimento costante e spesso le politiche Esg nascondono tentativi di greenwashing, in cui le pratiche di sostenibilità sono solo meccanismi di marketing.
Pensi allora a The Economy of Francesco: un movimento nato nel 2019, in cui la logica del profitto è secondaria rispetto alla logica del dono, dell’ambiente, della gratuità. Pensi alle società Benefit. L’Italia ne ha già 1.900, ancora poche rispetto ai 5 milioni di imprese, ma il vento sta cambiando. Mi permetta anche di dire che qui da noi spesso si ha una visione molto provinciale, perché il nostro capitalismo conserva questa doppia dimensione: familiare e statale. E poco si è aperto alle dinamiche internazionali. Mentre altrove questi temi stanno assumendo una dimensione collettiva.

Faraci vede Jeff Bezos (foto a destra) come uno degli ultimi grandi giga-capitalisti, mentre quando riferisce concetto di generatività alle imprese e ai territori prende a esempio il modello di Ivrea e del distretto canavese ai tempi di Adriano Olivetti (foto a sinistra) – © Getty Images (2)

Mi concede però il dubbio? Le disuguaglianze economiche e sociali negli ultimi dieci anni sono cresciute. E i padroni del tech americano (e non solo) sono ormai diventati giga-capitalisti con patrimoni da capogiro come Musk e Bezos. Proprio gli stessi che stanno elaborando una cura dimagrante alle loro imprese con tagli indiscriminati al personale.
È il colpo di coda del vecchio modello, perché ormai abbiamo raggiunto una situazione insostenibile e sono d’accordo con lei che il divario sociale è aumentato in maniera considerevole. Elon Musk e Jeff Bezos, però, sono gli ultimi grandi giga-capitalisti, sono i vincitori, ma stanno accettando di costruire imprese con un management responsabile, attento al progresso e al benessere sociale. Quando questo avverrà non lo sappiamo, perché le transizioni possono essere indefinite o quanto meno di lungo termine. Premetto sono un aziendalista, l’impresa se ha un’ottica generativa, guarda sempre avanti e investe in tecnologia, innovazione, intelligenza artificiale. Se lo fa, allora sta dando un beneficio non solo a se stessa ma al mondo in cui opera.

Sicuro che la tecnologia porti sempre progresso? Gli interrogativi sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale hanno convinto anche questi grandi capitalisti a lanciare l’allarme sull’impatto che l’AI può avere sull’umanità. Più che una dimensione uomo-centrica qui sembra che si faccia di tutto contro la sua natura.
Sono stato di recente a un convegno dell’Unione italiana commercialisti ed è evidente che le apprensioni ci siano. Ma l’intervento di alcuni esperti del Politecnico di Milano mi ha rassicurato. Le nuove tecnologie impattano e poi cambiano il mondo, distruggono ma creano sempre nuovi posti di lavoro, e vedrà che anche stavolta il saldo sarà positivo. C’è bisogno di elaborare, digerire, mettere dei paletti: ma avverrà.

Inguaribile ottimista, ma siamo entrati nell’era del “pandemonio globale”, ha titolato efficacemente l’Economist poco meno di anno fa, quando la Russia invase l’Ucraina. Siamo in una nuova Guerra Fredda con il mondo tagliato in due tra Usa e Cina, con venti di guerra minacciosi a Taiwan: come si concilia ciò con la sua idea del nuovo mondo che sta per realizzarsi?
Sì, la geopolitica non gioca a favore. Questa nuova Guerra Fredda tra Cina e Usa complica il quadro e il rischio che il New World Management di cui parlo possa subire una battuta d’arresto. D’altronde questa nuova Cortina di ferro finirà per contrapporre il modello capitalista anglosassone a quello capitalistico-dirigistico delle democrature asiatiche. Con una grande concentrazione di ricchezza che, come vediamo, sta avvenendo anche in Russia e Cina. Per questo serve la risposta dell’Europa, che non può rimanere schiacciata e, anzi, ha il dovere di rappresentare un benchmark per l’umanità. Vede, questo modello generativo nasce proprio qui da noi, per questo dobbiamo cercare di proporre un modello differente, con un ritorno alle origini rinascimentali legate all’economia. È la nostra storia.


Questa intervista è tratta dal numero di Business People di giugno 2023, scarica il numero o abbonati qui

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