Il marketing televisivo di Mediaset nell’era digitale

Intervista a Federico di Chio, direttore Marketing strategico del Gruppo Mediaset

Il marketing televisivo di Mediaset nell’era digitale - Federico di Chio

L’intervista a Federico di Chio, direttore Marketing strategico di Mediaset, è parte dello speciale
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Come è cambiato l’approccio del marketing con l’avvento dei big data prima e dell’intelligenza artificiale poi?
La televisione è un prodotto complesso, anzi, in realtà è un insieme di prodotti complessi – intrattenimento, fiction, informazione, cartoni animati, cinema – e sono tali perché “comunicano”, raccontano storie, trasmettono valori, visioni del mondo. Per questo, sin da quando è nato (in Italia era l’89), il marketing televisivo è sempre stato consapevole di dover essere ben “attrezzato” e di dover fare uso di tutti gli strumenti disponibili. Fin dall’inizio, abbiamo affiancato all’analisi quantitativa dei consumi, i dati Auditel, le ricerche psico-motivazionali (focus group, interviste individuali), le ricerche etnografiche e le analisi testuali di natura semiotico-linguistica… Questo anche perché a differenza di altri settori, dove si lavora molto su aspetti come la distribuzione, il prezzo, la promozione, noi dobbiamo inevitabilmente concentrarci sul prodotto, cioè sui contenuti, con una forte attenzione alla dimensione diagnostica, per capire cosa funziona e cosa no, perché funziona e perché no; e come correggere eventualmente la rotta. Questo sul fronte qualitativo. Su quello quantitativo, invece, dalla nascita di Auditel abbiamo sempre conosciuto il nostro pubblico attraverso una rappresentazione statistica, ma oggi l’avvento del digitale, con le relative possibilità di tracciamento e di contatto con lo spettatore, ci ha permesso di affiancare ad essa i dati rilevati puntualmente. Il nostro database degli utenti registrati conta oramai più di 20 milioni di nominativi, dei quali non solo conosciamo le classiche informazioni di base – sesso, età, area geografica… – ma anche quali contenuti guardano, quanto spesso e se ci arrivano attraverso scelte casuali o meno. E questo ci permette di consolidare dei profili di gusto, che possono evolvere in profili socio-culturalivaloriali. L’ambizione insomma è arrivare a conoscere il nostro pubblico così bene da abilitare sia la vendita profilata della pubblicità, sia la raccomandazione personalizzata dei contenuti. La sfida per noi broadcaster, oggi, è riuscire ad affiancare una proposta “tailor made” a quella generalista tradizionale.

Che tipo di evoluzione prevede per il futuro prossimo?
Un’evoluzione degli analytics sempre più potenziati dalle logiche bigdata. Qui entra in gioco anche il tema dell’intelligenza artificiale. Se, fino a oggi, ne abbiamo fatto un uso prevalentemente strumentale, per l’esecuzione di una serie di task all’interno di un processo definito dalla human intelligence, ora stiamo iniziando a sfruttare il contributo dell’AI nell’elaborazione dei complessi processi di content-recommendation individuale. Quindi, l’evoluzione del marketing del nostro settore passa dalla capacità di pervenire a una conoscenza individuale dello spettatore e dunque di servirlo in modo personalizzato.

Visto che ha tirato in ballo l’AI, non posso non chiederle se pensa che tra qualche anno, in tutto o anche solo in parte, potrà in qualche modo sostituirla nel suo lavoro…
Speriamo, così potrò andare a pescare (ride)! Scherzi a parte, credo che l’AI avrà un impatto importante non solo nella business intelligence, ma anche nella generazione di testi e contenuti, quindi nella parte creativa. Questo, naturalmente, porta con sé una serie di risvolti eticodeontologici da non sottovalutare. In questo nuovo contesto, però, ci sarà sempre bisogno dell’intelligenza dell’uomo di marketing, che deve saper leggere e interpretare quel momento magico che è l’incontro di domanda e offerta.

La Gen Z ha un rapporto tutto nuovo con la tv e la radio rispetto alle generazioni precedenti, in che direzione state lavorando per ingaggiarla?
È vero che i nuovi utenti hanno un rapporto diverso con la Tv, ma in merito farei due tipi di considerazioni. Da un lato, la mia generazione, ma anche quella successiva, hanno ancora un legame forte con i canali e con l’idea di televisione come appuntamento e questo rimane un elemento fortissimo: poiché il nostro è un Paese molto anziano, la gran parte della popolazione mantiene questo tipo di connessione con la Tv. Dall’altro, è vero che i più giovani guardano meno ai canali e ai palinsesti, ma hanno un rapporto fortissimo con i brand dei programmi. Questo ci impone di affiancare un nuovo paradigma a quello tradizionale, che lavori sul singolo contenuto e sulla sua declinazione nel mondo digitale. Perché non basta proporre in Rete il programma andato in onda così com’è, ma è necessario lavorare tematicamente e pensare a formati più brevi o comunque diversi. Insomma, allo stesso contenuto va applicata un’intelligenza editoriale nuova.

Solitamente la televisione è un elemento essenziale del marketing mix dei brand, significa che il vostro approccio deve in qualche modo anticipare le strategie degli inserzionisti?
In parte direi di sì. Quello che notiamo ora è una crescente inclinazione degli investitori per campagne cross-mediali e avere un portafoglio di media variegato ci consente di aiutare tutti a raggiungere i propri obiettivi di comunicazione. Mediaset non è solo sinonimo di Tv, ma possiamo sfruttare anche il mondo digitale, in primis con Infinity, e poi siamo il primo editore radiofonico e il primo distributore cinematografico italiano e siamo molto presenti nel digital-out-of-home. Questo significa presidiare mercati differenti e offrire molteplici servizi. Non a caso il mio reparto si chiama marketing strategico di gruppo, perché guardiamo a tutti i business in modo trasversale.

Ritornando con la mente a quello che era il marketing di cinque-dieci anni fa, ci sono degli strumenti allora essenziali del vostro lavoro che sono diventati obsoleti?
Sinceramente no. La mia idea è che i nuovi strumenti non si debbano sostituire ai vecchi, ma andare ad aggiungersi a essi. Anche se, ovviamente, questo rende un po’ più complesso il nostro lavoro…

Anche per far fronte a questa maggiore complessità, ci sono elementi su cui i direttori marketing dei brand dovrebbero insistere di più e meglio per ottimizzare al massimo l’efficienza degli strumenti di analisi e pianificazione attualmente disponibili?
Il nostro, come dicevo, è un marketing innanzitutto di prodotto. Quindi, per essere efficaci dobbiamo riuscire a tradurre la complessità del punto di vista del pubblico a tutti coloro che concretamente producono contenuti: giornalisti, autori, sceneggiatori, conduttori e produttori. Investiamo molto nella relazione con queste figure, ci “compromettiamo”, cercando di non limitarci all’analisi dei dati, ma proponendo soluzioni creative. Solo così possiamo essere davvero efficaci. Certo, questo ci espone al rischio di sbagliare, ma il mercato si evolve così velocemente che non possiamo esimerci da questa responsabilità.

Per concludere, se dovesse indicare tre ingredienti fondamentali del suo lavoro, quali sarebbero?
Per prima cosa direi l’interpretazione. È facile fare le analisi di marketing descrittive, mentre la capacità di interpretare un fenomeno è rara. Ci vuole sempre “profondità di giudizio”. Il secondo ingrediente, come dicevo poco fa, è il coraggio di esporsi. Se hai un giudizio, lo devi condividere. Con savoir faire, certo; ma con convinzione. Il terzo ingrediente, molto legato al presente e al futuro che ci aspetta, è la capacità di far dialogare culture del marketing differenti: nel nostro settore intendo i professionisti del marketing editoriale, da una parte, e gli scienziati dei numeri dall’altra. Sono territori e saperi molto diversi tra loro, ma la loro contrapposizione sarebbe letale per il nostro mondo. Al contrario è e sarà sempre più indispensabile trovare un terreno d’intesa e di collaborazione creativa. L’evoluzione del marketing televisivo (ma forse di tutti i marketing) passa insomma da un intenso lavoro di mediazione culturale.

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