«Lo sport? Come la luna per Cyrano»

E questo vale anche per un progetto imprenditoriale e nella vita. Perché coltivare un sogno permette di superare i propri limiti e – anche laddove non si ricevano adeguati aiuti dal sistema – di trovare e sfruttare risorse inaspettate. Lo dimostrano molti campioni nazionali che, tra scandali, difficoltà e polemiche, continuano a tenere alta la bandiera italiana. La visione di Giovanni Malagò, presidente del Circolo Canottieri Aniene

Fin dai tempi antichi, alle acque del fiume Tevere sono legati i destini di Roma e dell’italianità. Non solo quelli economici e politici, ma anche quelli che onorano la sua anima sportiva. Storicamente è su quelle rive millenarie che si sono allenati lottatori, pugili, pesisti e canottieri. E, dedicato soprattutto a questi ultimi, nel 1892, sulle sponde dell’affluente Aniene, ha aperto i battenti un circolo che da poco ha compiuto 120 anni e che oggi porta i suoi, i nostri atleti, a rappresentare la nazione nelle più prestigiose manifestazioni internazionali. Per dire, alle Olimpiadi 2008 di Pechino il sodalizio fu protagonista con 21 campioni e vide l’oro con Federica Pellegrini, l’argento con Josefa Idem e due ori nel paralimpico con Paola Protopapa e Luca Agoletto. A Londra 2012 si sono qualificati in 25, facendo risultare l’Aniene la prima società sportiva nazionale esclusi i corpi militari. E, proprio durante i Giochi britannici, all’indomani del suo pieno proscioglimento dalle accuse di abusivismo edilizio per i locali dell’Aquaniene, Giovanni Malagò, imprenditore e presidente del Circolo dal 1997, ha annunciato la sua candidatura alla presidenza del Coni (Comitato olimpico nazionale italiano, le elezioni si terranno il prossimo febbraio).

Una vita, quella di Malagò, all’insegna del business – amministratore delegato e socio del gruppo Samocar, rappresentante del marchio Ferrari e Maserati per Lazio, Campania, Toscana e Sardegna, presidente e a.d. della società di partecipazioni Samofin, consigliere di Air One, solo per citare alcuni dei principali ruoli ricoperti – e dello sport: atleta azzurro d’Italia, giocatore in serie A e in Nazionale di calcio a cinque, medaglia d’oro al merito sportivo e collare d’oro. Un unico, comune denominatore: la passione per l’impegno e le sfide. E l’idea, un po’ romantica, che non bisogna smettere di coltivare i propri sogni: nel suo libro dedicato alle nostre campionesse femminili («troppo calciocentrismo e maschiocentrismo», commenta. Detto da un uomo, ça va sans dire…), il presidente dell’Aniene cita Edmond Rostand e il suo Cyrano de Bergerac: «Non cerco né gloria né fortuna, ma un modo per raggiungere la luna».

Malagò, il circolo abbraccia oltre un secolo di storia del Paese e dello sport. Certi valori sono rimasti immutati?
Il nostro statuto parla molto chiaro. Abbiamo lo scopo di promuovere lo sport a tutti i livelli, dalle attività di base, quindi le scuole sportive, fino a quelle di vertice, che conducono in giro per il mondo i nostri atleti a rappresentare l’Italia. Il club nel senso più tradizionale del termine, come luogo d’incontro e confronto, e la polisportiva affiliata a 17 federazioni sono due facce della stessa medaglia.

Quali sono i problemi principali che attualmente attanagliano l’agonismo nazionale?
È necessario trovare delle risorse in grado di supportare tali attività.

In tempi di spending review, i fondi al Coni sono stati ridotti da 470 a 409 milioni di euro…
Sì, ma non è che le risorse vadano per forza chieste alla “mamma Stato”. Parallelamente, tuttavia, è un problema di sistema. Per esempio, per quanto riguarda tutto l’apparato degli impianti, noi paghiamo un gap fortissimo che va avanti da diverso tempo. In tanti casi siamo fermi alle strutture create negli anni ‘70, in certi altri addirittura risalgono al dopoguerra! È chiaro che occorra incentivare.

E poi anche a livello legislativo siamo bloccati. Penso alla legge sugli stadi, congelata da tempo in Parlamento…
Si parla tanto di stadi perché è il dio calcio quello che domina, ma ricordiamoci che in ballo ci sono anche le sorti dei vari palazzetti locali. Ho in mente alcune realtà di provincia o città che hanno sviluppato un’identificazione molto stretta con squadre di pallacanestro, pallavolo, pallamano o altri sport. Distretti, insomma, legati a specifiche discipline sportive. Anche su questo rischiamo di pagare un dazio altissimo nei prossimi anni. Del resto, in tempi recenti, la nostra classe dirigente – non solo per lo sport, ma più in generale – ha ritenuto prioritario mantenere certi consensi piuttosto che realizzare opere e progetti, sia in senso fisico che virtuale, che presupponevano una visione più a medio e lungo termine.

Sempre sulle normative. Da poco anche Josefa Idem è tornata sulla necessità – di cui peraltro si parla da anni – di una legge ad hoc che tuteli gli atleti…
È un argomento ampiamente dibattuto. Qui entriamo nel territorio della legge 91 del 1981 sul professionismo sportivo in Italia. Sappiamo benissimo che alcune delle discipline più in voga come il calcio e la pallacanestro, l’automobilismo e il golf, sono soggette a una contribuzione totale, mentre le altre sono equiparabili a pratiche dilettantistiche. È un controsenso! Senza contare che non c’è alcuna copertura per le atlete in maternità che sono costrette a interrompere l’attività sportiva. Nel caso di Josefa, poi, si parla di una campionessa che ha sdoganato i confini, andando ben al di là: una che a 48 anni ha disputato la sua ottava Olimpiade e ha messo al mondo due figli.

Il caso Schwazer e il doping. Sono necessari controlli più rigidi a monte?
Di tutto si può accusare l’Italia, ma non che non sia all’avanguardia su certe battaglie, come quelle contro le sostanze dopanti. Anzi, paradossalmente rischiamo di essere, per certi aspetti, fin troppo fiscali! Quello non può essere assolutamente un caso su cui livellare tutto il mondo sportivo. Va circoscritto a un contesto particolare, è evidente che c’è stato uno scarso controllo ma non tanto e solo sul doping, quanto proprio sulla stessa vita professionale dell’atleta. Torno sul discorso della mentalità italiana: negli ultimi anni, a partire da politica e istituzioni, sono venuti meno certi insegnamenti, per ottenere vantaggi e vittorie sull’avversario attraverso metodi non corretti.

Insomma, i furbetti del quartierino ci sono anche nello sport…
Ma pure nelle banche, nella finanza… Ovunque. Scelga lei un settore.

E invece cosa continua a contraddistinguerci come eccellenza italiana nel mondo?
Come nell’impresa, nell’arte o nella ricerca, anche nello sport abbiamo delle spiccate individualità che continuano a venir fuori. Mostriamo delle risorse inaspettate e sappiamo sfruttarle. Anche se il Paese non fa nulla per dare aiuti. Ma non bisogna nemmeno delegare troppo al talento estroso del singolo genio o all’impegno del presidente di una federazione. Ricordiamoci che si parla di persone, i nostri atleti, in grado di ricostituire un gruppo ancora vincente. Alla guida di un carro che condurrà l’Italia a livello internazionale nei prossimi decenni.

ICONE DI VITA
«Le donne hanno faticato indubbiamente più degli uomini a beneficiare di un riconoscimento professionale, ampiamente meritato», ammette Malagò. «Molte sono impegnate come dirigenti importanti sia a livello politico sia dello sport internazionale, come Manuela (Di Centa, ndr), oppure sono diventate madri, si pensi a Josefa (Idem) e Valentina (Vezzali). O ancora icone del loro mondo e non solo: Federica (Pellegrini), Flavia (Pennetta) e Francesca (Piccinini)». E non pensa che impegni esterni – specie quelli che vedono coinvolti i media e la pubblicità, per cavalcare la scia delle polemiche di gran parte dell’opinione pubblica – costituiscano una distrazione e rischino di compromettere il rendimento? «È ovvio che uno debba essere in grado di gestirsi tra allenamenti, spot e campagne di beneficienza, e se si parla di professionisti stia tranquilla che ne sono capaci. No, non è questo il punto». Dunque qual è? «I nostri atleti sono tra i pochi modelli positivi che riusciamo a esportare. Va visto come arricchimento il fatto che si dividano tra più attività, a fronte del sacrificio e dell’abnegazione nelle loro discipline. La verità? Sono tutte donne dalla personalità forte, e se non avessero avuto quel carattere non sarebbero arrivate a tagliare certi traguardi». E conclude: «Qui si pretende di avere una specie di automa che fa sport 365 giorni l’anno e magari dovrebbe fermarsi a un bel sorriso e basta. Scusate, ma non funziona così».

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