Dodici ori, 13 argenti e 15 bronzi, un totale di 40 medaglie, senza contare i 20 quarti posti, a due passi dal podio. Sono i risultati dei nostri atleti azzurri alle ultime Olimpiadi di Parigi, che rendono bene l’idea di eccellenza raggiunta dal movimento italiano. Il rovescio della medaglia – è proprio il caso di dirlo – sta nell’attuale stato di salute della “base” sportiva del nostro Paese: a livello locale molte società faticano a stare a galla, mentre praticare uno sport resta un lusso non alla portata di tutti. Eppure, l’attività fisica porta con sé un valore inestimabile, sia a livello di indotto sia per l’importante contributo che può dare alla qualità delle nostre vite. Un valore sempre più riconosciuto dalla politica a cui, tuttavia, devono seguire fatti concreti. Di questo e di molto altro abbiamo parlato con Silvia Salis, ex atleta olimpica e oggi vicepresidente vicario del Coni, uno dei volti più rappresentativi dello sport in Italia.
Dopo 15 anni da atleta ad alti livelli e due partecipazioni alle Olimpiadi, un infortunio l’ha spinta a lasciare l’attività atletica e dedicarsi alla politica sportiva. È la dimostrazione che le cadute possono essere un nuovo inizio?
Diciamo che è più facile superare una caduta, se si ha un piano B, un programma per la propria vita nel caso i tuoi obiettivi non dovessero avverarsi. C’è chi dice che non raggiungere i propri obiettivi sia a volte una fortuna: non era il mio caso, perché per me partecipare a una terza edizione delle Olimpiadi sarebbe stato un sogno. Al tempo stesso, però, ammetto che smettere quell’anno (nel 2016, ndr) ha dato il via a una serie di avvenimenti, come l’elezione nel Consiglio della Federazione italiana di atletica leggera (Fidal) e nel Consiglio nazionale del Coni, che hanno dato il la alla mia “carriera” di dirigente sportiva. Se avessi trascinato più avanti quell’infortunio, forse non sarei qui. Tutto è capitato nel momento giusto: è iniziato un nuovo percorso e devo ammettere che nel giro di qualche anno mi sono tolta parecchie soddisfazioni.
È indubbio che lo sport – oltre che far bene a livello psico-fisico – sia portatore sano di valori. Anche per questo nel settembre 2023 l’Italia ha inserito l’attività sportiva nell’articolo 33 della Costituzione. Mi chiedo e le chiedo: che valore ha avuto per il Coni e per gli italiani il riconoscimento, e soprattutto perché c’è voluto così tanto?
Forse perché, considerato un’eredità del fascismo, lo sport per molto tempo è stato messo un po’ ai margini dalla politica. Va detto che negli anni questo ostacolo è stato superato, fino ad arrivare a un’unanimità di consensi quando si è deciso di inserirlo in Costituzione. Sancire l’importanza dell’attività sportiva nel nostro Paese è sicuramente un modo per darle concretezza all’interno di un programma di welfare e di servizi alla persona, ma da qui a farlo diventare un diritto, la strada è molto lunga.
Cosa manca?
Lo sport dovrebbe essere un diritto per tutti, ma a oggi è un lusso, perché per praticarlo, banalmente, si paga. Pensiamo anche all’attività di educazione fisica nelle scuole, dove la situazione è abbastanza drammatica. Lì le infrastrutture spesso non sono a norma, ma a volte non ci sono nemmeno quelle: nelle scuole primarie del nostro Paese solo due palestre su dieci sono attrezzate per l’ora di educazione fisica. Parliamo di una media nazionale, quindi ci sono Regioni in situazioni peggiori, ed è un dato che ci deve far riflettere. Ma lo sport non è vitale solo per i più giovani, i ragazzi e i nostri straordinari atleti; è fondamentale per gli italiani di tutte le età. Se fosse prescritto come cura, garantirebbe un risparmio incalcolabile sul Sistema sanitario nazionale. Non le dico niente di nuovo: è qualcosa che, come Coni, affermiamo da decenni. Però è il momento di imprimere un cambio di rotta, anche grazie all’inserimento, come accennava lei, dello sport nella Costituzione. Questo ovviamente, richiede investimenti pubblici e un cambiamento di mentalità che abbiano un respiro molto più lungo della durata di un singolo governo.
Secondo lei, la politica ha interesse a ragionare in questi termini?
C’è stata un’unanimità, quindi c’è una condivisione dell’importanza dell’attività sportiva. Spesso, tuttavia, questo rappresenta un’arma a doppio taglio. Ora, infatti, è il momento di attivarsi e a volte la dialettica politica che non nasce dall’unanimità porta più velocemente a ottenere risultati. Personalmente, spero che questa presa di coscienza si traduca presto in fatti: più impianti sportivi, un adeguamento dell’edilizia scolastica e, in generale, un accesso alla pratica sportiva prescritta dai medici, come oggi lo sono i farmaci.
In base a un recente studio di Banca Ifis, l’economia italiana dello sport vale il 3,9% del Pil. Ha già fatto riferimento alle infrastrutture, c’è qualcos’altro che può spingere ulteriormente questo indotto?
Sicuramente il più grande investimento va fatto sulle infrastrutture, perché tutto il resto già c’è: in Italia è presente una classe dirigente oltreché tecnica di altissimo livello. Le strutture del Comitato olimpico e delle federazioni sul territorio sono ben radicate, per cui c’è una cultura sportiva profonda. Lo dimostra il fatto che, pur essendo un Paese con un numero non esorbitante di abitanti e in media anziano, l’Italia nelle varie competizioni internazionali è sempre in vetta alle classifiche. Il sistema funziona, la cultura sportiva c’è. È chiaro che, se si guarda invece alla pratica sportiva di base, tutto cambia. Pensi a una famiglia con tre figli e un solo stipendio: come può pensare di iscrivere un figlio in palestra, uno in piscina e un altro, ad esempio, a giocare a calcio? Non è possibile, non se lo può permettere. Serve, quindi, un’evoluzione culturale: lo sport deve diventare un tema economico per il nostro Paese, una voce di spesa e investimento.
Nella nostra ultima intervista aveva sottolineato lo stato di enorme difficoltà in cui versava la base sportiva italiana: molte società, all’indomani della pandemia, presentavano conti in rosso ed erano alle prese con il rincaro dell’energia e delle materie prime. Cos’è successo in questi due anni e come il Coni è stato vicino alle società?
La situazione è ancora molto difficile, perché in diversi casi queste difficoltà hanno sancito la fine della società sportiva. Il Coni, attraverso i suoi comitati regionali, i rapporti con le istituzioni e le società sportive affiliate alle nostre federazioni, ha cercato di dare tutto il sostegno possibile. Questo, però, è un tema economico molto forte che riguarda l’intero Paese. Servono risorse che solo il sistema Paese può dare. Il nostro è un comparto che rende e i dati lo dimostrano. Non parlo solo delle grandi manifestazioni, ma anche dell’indotto generato dalla pratica sportiva di tutti i giorni, perché banalmente chi si può permettere l’attività fisica frequenta gli impianti, acquista materiale sportivo e investe in centri medici per la cura del proprio corpo. Però è un comparto che va sostenuto: il settore ha bisogno di forti risorse economiche per rendere la pratica sportiva omogenea, perché ancora oggi in Italia ci sono discrepanze tra Nord e Sud che non ci possiamo permettere.
Prima ha parlato degli ottimi risultati sportivi della nostra Nazionale, confermati anche a Parigi 2024. È la cultura sportiva a cui accennava il segreto che rende l’Italia tanto vincente?
Esattamente. Abbiamo un settore tecnico di altissimo livello. Ci sono intere generazioni di medaglie che nascono da un allenatore che in una città, a volte in un paese, riesce a sviluppare un contesto nel quale un atleta può nascere, crescere e arrivare a vincere le Olimpiadi. È la grande forza dell’Italia. A questo va aggiunto tutto il sostegno che il Comitato olimpico offre alle federazioni, impegnate in un grande lavoro con le società del territorio. È un circolo virtuoso, che porta l’Italia a difendersi in campo internazionale, se non a primeggiare. Detto questo, il futuro riserva delle incognite legate sia alla natalità, ai minimi storici, sia all’impiantistica, soprattutto scolastica. Bisogna vedere quale sarà il frutto dei prossimi dieci anni, che poi ci proietteranno verso le Olimpiadi del futuro.
A proposito di Olimpiadi del futuro, tra poco più di un anno si apriranno i Giochi di Milano-Cortina. Oltre agli auspicabili risultati sportivi, ci sarà anche l’atteso sviluppo economico?
È una peculiarità dei grandi eventi sportivi, ma è difficile calcolare il loro valore, perché va ben oltre il semplice indotto economico. L’eredità che i Giochi lasceranno al territorio non sarà solo legata agli impianti sportivi, ma anche alla mentalità di donne e uomini che avranno lavorato per anni a una grande manifestazione e che potranno reimmettere questa esperienza nel sistema italiano. Questo valore è incalcolabile. A livello aspirazionale, poi, far crescere intere generazioni nel “sogno olimpico”, vedere le città che si preparano a ospitare i Giochi e assistere a queste competizioni è qualcosa capace di cambiare il rapporto con lo sport e, in generale, con la nostra società. Organizzare un’Olimpiade è una scelta coraggiosa e, come tutte le scelte coraggiose, presenta delle incognite, ma è capace anche di generare forza ed entusiasmo. L’Italia ultimamente ha ospitato grandissimi eventi sportivi, vedi la Ryder Cup di Roma e tantissimi altri. Quello che lasciano è la consapevolezza di essere all’altezza di ospitare le più grandi manifestazioni del mondo, di poter organizzare grandi imprese. Non va dimenticato, infine, cosa queste manifestazioni portano alle città in termini di turismo e accessibilità, aspetto quest’ultimo a cui tengo molto. Una città che si prepara per le Olimpiadi si prepara anche alle Paralimpiadi, con impianti e infrastrutture pensati per tutti.
Come nella sua specialità, il lancio del martello, lei ha precorso i tempi diventando la prima donna a ricoprire il ruolo di vicepresidente vicario del Coni. Che bilancio fa di questa sua esperienza e a che punto si trova la sua battaglia sull’inclusione?
Effettivamente, ho sempre scelto dei percorsi che potrei definire “pensati al maschile”. Quando ho iniziato a cimentarmi nel lancio del martello, questo sport non era previsto per le donne alle Olimpiadi. Lo stesso ruolo che ricopro oggi è sempre stato ad appannaggio di dirigenti sportivi di grande esperienza o presidenti di federazione di lungo corso. Per me ha rappresentato una grande opportunità, anche se – non ho problemi ad ammetterlo – la mia nomina non è stata giudicata positivamente da tutti. La mia più grande soddisfazione, però, è stata consolidare negli anni i giudizi positivi delle persone che mi hanno sostenuto durante il mio percorso e far cambiare idea a chi, invece, aveva ragionato con un po’ di pregiudizio. A loro non faccio nessuna colpa, perché è normale che allora rappresentassi un cambiamento, che andava messo alla prova. Detto questo, le dirigenti sportive rimangono ancora molto poche, così come le allenatrici ed è inevitabile che siano poche quelle incluse ai vertici delle federazioni.
Perché?
È un tema culturale. La dirigenza sportiva in Italia si basa su un qualificatissimo volontariato: ci sono persone che dedicano il proprio tempo libero ed entrano nell’organigramma di una società sportiva perché è lì che hanno praticato uno sport o perché lo praticano i loro i figli. A oggi, le donne non dispongono del loro tempo libero come gli uomini, perché spesso a loro è demandata tutta una serie di incombenze come la cura della famiglia e dei cari. Questo ovviamente fa sì che, non potendo dedicarsi alla dirigenza come volontariato, siano sempre poche quelle che possono diventare presidente di una società, di un comitato regionale o di una federazione. Inoltre, è più difficile per una donna imporsi in un ambiente dove la platea elettorale è quasi esclusivamente maschile.
Come invertire la rotta?
Credo ci si debba muovere in due direzioni. Innanzitutto, dal basso, ma il cambiamento culturale richiederà tempo. Per questo servono segnali forti anche dall’alto, perché le giovani che vogliono intraprendere un percorso devono potersi ispirare a qualcuno, che possa dimostrare che il loro obiettivo è possibile. Per questo ritengo che la scelta di Giovanni Malagò di nominarmi vicepresidente vicario del Coni, sia in questo senso un’apripista per tante ragazze, le quali hanno visto in me una donna che a 35 anni è riuscita a ottenere un ruolo molto ambito, che rappresenta l’ente sportivo italiano per eccellenza.
Due anni fa le chiesi se fosse possibile avere una donna presidente del Coni e lei giustamente rispose che ciò che conta è la competenza, non il genere. Lei si sentirebbe pronta a raccogliere questa sfida?
Innanzitutto, bisognerebbe capire cosa succederà l’anno prossimo: il dialogo con le istituzioni è ancora aperto e si spera che il mandato del presidente Malagò possa essere prolungato quantomeno fino alle Olimpiadi di Milano-Cortina del 2026, perché è un percorso che lui ha iniziato e che credo sia giusto che sia lui a concludere. A oggi, sinceramente, non credo sia il caso di esprimersi.
Elezioni del Coni a parte, nei prossimi mesi ci sarà una buona notizia per lei: il suo libro, La bambina più forte del mondo (Salani), diventerà una serie televisiva per Rai Kids.
Sì, anche se per veder in onda Interstellar Games ci vorrà più tempo del previsto. Pur essendo sposata con un regista (Fausto Brizzi, ndr) ed essere a contatto da tempo con il mondo del cinema, ho scoperto che la lavorazione dei cartoni animati è molto più complessa e articolata. Il progetto con Rai Kids è in lavorazione ed è qualcosa a cui tengo molto e di cui vado orgogliosa: sarà un cartone interamente basato sullo sport, dove ogni episodio tratterà una disciplina e le sue regole attraverso il racconto dei suoi protagonisti. Ritengo possa essere utile per ispirare i bambini a immaginarsi atleti in futuro o, comunque, considerare lo sport come attività principale della loro vita.
C’è un aspetto nel lancio de martello che le è tornato utile come vicepresidente del Coni?
Sicuramente la capacità di programmare a lungo termine, il non perdere la voglia di lavorare ogni giorno, mantenendo una visione di lungo termine. Questo nella vita mi è tornato molto utile. E poi, far fatica: sopportare la fatica, non solo fisica, mantenendo gli obiettivi sempre davanti a me. In questo, sicuramente, lo sport è la scuola migliore.
Silvia Salis – Strettamente personale
Da ex atleta olimpionica, oggi dirigente, come vive le gare altrui?
Hanno un sapore particolare, perché da dirigenti si assiste alle gare con una visione d’insieme di tutto quello che sta succedendo. Ho smesso da quasi 10 anni di fare l’atleta, è difficile che pensi quotidianamente a competizioni e allenamenti, ma quando vedo gli altri gareggiare è come se riprovassi le stesse emozioni di tanti anni fa.
C’è qualche sport che pratica attualmente e a che livello?
Corro ormai da qualche anno, “seriamente” – mi passi il termine, perché il mio è comunque un livello sub amatoriale – da quando è nato mio figlio. Ho iniziato a correre seguendo dei programmi di allenamento per rimettermi in forma, ho fatto anche una mezza maratona e qualche gara, ma solo per divertirmi. È più un modo per stare con gli amici e, a volte, con mia sorella, che corre anche lei.
Qual è la dote che si riconosce per eccellenza?
Sono una donna estremamente determinata.
A livello professionale, qual è la figura che l’ha ispirata e la ispira maggiormente?
La risposta per me è facile: Giovanni Malagò. Mi ha dato la più grande opportunità della mia vita, compiendo una scelta atipica e scommettendo sul fatto che potessi essere all’altezza di questo ruolo così importante. Un ruolo che, prima di me, era stato affidato a un grande dirigente come Franco Chimenti, ex presidente della Federazione di Golf che, avendoci lasciato da poco, voglio ricordare con un pensiero affettuoso. Di Giovanni (Malagò, ndr) ammiro soprattutto le sue capacità umane all’interno del Coni: fa sentire tutti a proprio agio e ascoltati, dal primo tifoso o dirigente sul territorio fino ai grandi politici e manager che frequenta. Penso sia una grande qualità attribuita a persone di altissimo livello.
Il cinema ha spesso raccontato la vita di uomini dello sport: quale storia consiglierebbe a suo marito per un film?
Sicuramente la storia di Alice Milliat. È colei che nel 1922 diede vita alle Olimpiadi femminili, perché fino ad allora le donne non erano considerate nel contesto olimpico. Milliat, invece, è andata contro il suo tempo, contro le regole e, con grande determinazione, ha creato un’Olimpiade femminile parallela per affermare “ci siamo anche noi”. È un personaggio chiave per tutte le donne, non solo di sport, e sono affascinata da quelle che riescono a imporsi in ambienti maschili, perché è molto complicato essere prese sul serio, ed è molto bello quando questo avviene senza uniformarsi e rimanendo sé stesse.
Intervista pubblicata sul numero di Business People di dicembre 2024. Scarica il numero o abbonati qui
© Riproduzione riservata