Esiste una narrazione di quel che comporta e rappresenta il digitale che non sempre fa rima con il reale. Lo storytelling impone infatti, quasi più per stupire che per allettare, un racconto di quel che il digitale permetterebbe di fare in una dimensione ipotetica e possibilista, a volte quasi onirica e distopica, che contribuisce alla costruzione di un immaginario che allontana il digitale dalla quotidianità. Relegandolo quasi in una dimensione elitaria, solo per un pubblico evoluto o imprese iper hi-tech. E invece… Invece, si scopre che la cosiddetta transizione digitale, più che un passaggio da uno stato a un altro, è un’attitudine, un processo evolutivo in atto da tempo e, in buona parte, già in essere.È questa l’impressione che si coglie chiacchierando con Stefano Rebattoni, dal gennaio 2021 amministratore delegato di IBM Italia e convinto assertore del “digitale per il reale”, che ci racconta come per le grandi questioni che attualmente interrogano cittadini, governi e imprese a livello nazionale e internazionale, il digitale sia in grado di fornire non tanto la soluzione tout court bensì gli strumenti che, debitamente armonizzati tra loro, potrebbero costituirne le chiavi di volta. Leggere per credere.
Si fa un gran parlare di innovazione, un concetto che solitamente fa rima con digitalizzazione. Ma, secondo lei, qual è il discrimine tra innovazione reale e quella presunta? Oggi il digitale è “lo” strumento abilitante per qualsiasi trasformazione di business: è un dato di fatto. Però il digitale è uno strumento, non il fine ultimo, quindi bisogna saperlo utilizzare. In IBM diciamo che, per essere vera innovazione, a un uso intelligente del digitale vanno poi affiancati altri due elementi: l’allineamento delle competenze del capitale umano e la rivisitazione dei processi. Le piattaforme digitali sono un esempio di come queste tre dimensioni possano coesistere per abilitare nuovi servizi e far dialogare domanda e offerta, e di fatto hanno rivoluzionato il settore. Penso al fenomeno…
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