Un’azienda fondata più di 102 anni fa, un marchio – quello del Levriero – che ne ha appena compiuti 40 e che è sopravvissuto in rapida successione all’improvvisa scomparsa del suo creatore prima e del suo erede poi. Quella del gruppo Trussardi è certamente una storia umanamente travagliata, ma nulla toglie che oggi sia in una fase di rinnovata consapevolezza con una famiglia proprietaria totalmente schierata per far valere la poliedricità dell’azienda, caratterizzata da un mix di quattro eccellenze: moda, food, arte e design. Così, se Maria Luisa Gavazzeni, moglie di Nicola, ne è la memoria storica, Beatrice è amministratore delegato del gruppo nonché presidente della Fondazione Nicola Trussardi (uno dei soggetti più interessanti e attivi nel panorama dell’arte contemporanea italiana), Gaia ha la responsabilità della direzione creativa e Tomaso si è assunto l’incarico di amministratore delegato di Trs Evolution, la società che produce e distribuisce le collezioni. In breve, è il braccio commerciale del business moda. E anche se in questa fase della sua giovane vita (compirà 31 anni tra un paio mesi) è diventato, come dire, un personaggio da rotocalco suo malgrado, a causa della relazione con la showgirl Michelle Hunziker, con tanto di paparazzi assiepati costantemente sotto casa per fotografare la giovane coppia e la loro piccola da poco nata, rimane a tutti gli effetti un businessman della moda, e come tale è stato ingaggiato dal canale tematico FoxLife per fare da giudice nella versione italiana di Project Runway, il talent portato al successo da Heidi Klum che andrà in onda a partire dal prossimo 26 febbraio.Ecco cosa pensa del mercato un giovane manager di un settore che contribuisce pesantemente a riequilibrare la bilancia commerciale italiana, e di una politica che non si accorge delle chance economiche, fiscali e occupazionali che esso potrebbe offrire al Paese.
Partiamo da un evento recente per la vostra azienda: i quarant’anni del brand, il Levriero. Esattamente dieci in più di lei. Cos’ha significato crescere con un compagno del genere? Quando nasci in un determinato contesto, lo percepisci come se fosse la normalità, perché non hai altri riferimenti. E il Levriero rappresenta per me la normalità: da piccolo vivevo l’azienda attraverso i miei genitori, solo più avanti mi sono reso conto di quanto sia stato privilegiato ad avere la possibilità di entrare in contatto con certe realtà.
Quando nel ’73 suo padre Nicola ideò il logo, lo fece perché aveva l’ambizione di trasformare un’azienda di pelletteria in un vero lifestyle brand che, negli anni a seguire, è divenuto via via l’obiettivo anche delle altre maison. Oggi come state rimarcando questo vostro Dna? Tutto è partito dalla convinzione di mio padre di creare, dalla Trussardi fondata dal mio bisnonno Dante alla conceria Almè, un brand che veicolasse il suo stile di vita e quello della nostra famiglia attraverso i suoi prodotti. Per i miei genitori, che l’hanno pensato, il Levriero rappresentava il perfetto connubio di eleganza e sportività. Non solo un concetto di lusso come prodotto inaccessibile per qualità e prezzo, ma che avesse anche intrinsecamente una sua dinamicità ed eleganza. Due elementi che fino ad allora si pensava si escludessero a vicenda. Noi ovviamente non potevamo vivere di rendita. E se abbiamo realtà solide dal punto di vista del lifestyle, è anche perché in campo artistico mia sorella Beatrice ha creato in prima persona la Fondazione Nicola Trussardi, partendo da un’idea di mio padre. Operiamo da sette anni nel food ad alto livello (vedi servizio a pag. 122, ndr), con riconoscimenti nazionali e internazionali e con diverse richieste di consulenza dall’estero. Così, da poco abbiamo deciso di aprire punti di ristorazione anche fuori dall’Italia, benché sarà dura, perché vogliamo avere la possibilità di gestirli direttamente, per garantire continuità e – soprattutto – qualità.
E poi c’è il design… In questo campo ci siamo inizialmente affacciati con delle collaborazioni. Siamo stati la prima azienda di moda a disegnare elicotteri, aerei, motorini, vespe e chi più ne ha più ne metta. Poi ci sono state collaborazioni anche nel campo dell’interior design, fino alla creazione della bicicletta Trussardi che tutti conoscono ormai come un pezzo di design. Abbiamo anche una licenza per l’arredamento, che debutterà al prossimo Salone del Mobile (e al Fuorisalone). Coniugheremo la parte più legata all’immagine e all’innovazione alla parte più commerciale. Naturalmente la moda è e rimane il nostro core business.
L’obiettivo dichiarato della riorganizzazone che avete annunciato la scorsa estate, è – cito parole sue – di «collocare il brand al pari di Prada e Gucci». Cosa vi manca? In realtà, in quell’occasione ho detto qualcosa di più articolato. Ossia che il nostro brand ha una storicità importante (100 anni nel 2011, ndr), al pari di Prada e Gucci, e che ha ormai un proprio stile riconoscibile, e non solo nel fashion. Per un certo periodo abbiamo preferito consolidare le varie attività, col risultato che oggi la nostra è un’azienda super patrimonializzata e con pochissimo debito. Quello che ancora ci manca è quel processo di internazionalizzazione che le altre aziende hanno intrapreso mentre noi eravamo intenti a consolidarci. Oggi ci stiamo strutturando per fare questo passo. Dunque, il confronto con gli altri brand era relativo alla mera struttura commerciale. Attualmente la Trussardi realizza il 45% del fatturato in Italia, e ha ampie potenzialità su molti mercati che non sono ancora stati toccati. In compenso, noi acceleriamo sull’estero in una condizione di solidità che mancava invece a questi grandi gruppi, guidati da leader che stimo molto, in primis Patrizio Bertelli, che avevano però una situazione di debito pari al fatturato.
La riorganizzazione comporterà una campagna di aperture di negozi monomarca all’estero? Anche. Abbiamo già una cinquantina di store tra Europa, Cina, Asia e Russia, in un futuro – non lontano – pensiamo di approdare anche in Nord America e negli Emirati Arabi Uniti, mentre India e Cina sono mercati da trattare con estrema prudenza. Perché, in base alla nostra esperienza in quest’ultimo Paese, sappiamo che è un area che bisogna certamente presidiare ma che produce meno utili di quanto sembri. Non a caso diversi francesi, zitti zitti, hanno cominciato a chiudere i loro punti vendita. E poi, come dico sempre io, per fare un’Italia ci vorrebbero almeno dieci Cine, nel senso che anche il mercato italiano ha delle potenzialità inespresse, malgrado la crisi e la flessione dei consumi. Basti dire che Armani fattura in patria 600 milioni dei sui 2 miliardi.
Quindi, il mercato domestico rimane un punto di riferimento?Certamente, ci serve solo “diluirlo” con un maggiore apporto di ricavi esteri. E poi quello italiano è un mercato che funziona, se lavori bene. Il suo fatturato è totalizzato al 70% dagli acquisti dei turisti stranieri. Basta “solo” essere capaci di catturare questa nuova clientela.
Anche perché per gli stranieri rappresenta un valore aggiunto comprare italiano in Italia. Certo, tuttavia dobbiamo ringraziare il nostro governo per essere riuscito a limitare pure questo, con la tracciabilità sopra i mille euro anche per gli acquisti degli stranieri. Eppure, per non sbagliare, sarebbe bastato prendere a modello Francia e Inghilterra che vivono grazie ai capitali arabi e russi…
Come si fa a crescere in un contesto in cui esistono mega gruppi come Lvmh e Kering? C’è chi ipotizza che i marchi che ne fanno parte abbiano vantaggi talvolta spropositati, al punto da farne materia da antitrust. È inevitabile che chi acquista 3 miliardi di pelle all’anno determini il mercato. Non è un caso che questa materia abbia subito negli ultimi tre anni un incremento di prezzo del 60%: in più, a quei livelli, possono scegliere tra la produzione migliore e riceverla prima. Non è quindi un fatto di antitrust, ma di volume d’affari. Se si vuole fare meglio, però, basta muoversi prima, come facciamo noi. Lo stesso accade nella distribuzione, ormai questi gruppi costruiscono i loro centri commerciali dove collocano i loro marchi ad affitti bassissimi attirando gli altri per il traffico che generano, cosicché alla fine gli “esterni” si trovano a entrare a condizioni sfavorevoli. La stessa via Montenapoleone a Milano ormai è per metà di Kering e per l’altra metà di Lvmh. Ma non vedo altra soluzione che cercare di competere muovendosi all’interno di politiche di libero mercato, e lavorando sulla “desiderabilità” del tuo prodotto. Non è solo questione di investimenti.
Al contrario di altre griffe che sono approdate con successo in Borsa, la vostra famiglia – al pari di Armani, D&G e altri – mantiene la proprietà dell’azienda. Mai pensato di quotarvi o di ricorrere ai fondi per fare il grande salto? Al momento è un’ipotesi che non ci interessa, perché crediamo che ci sia la possibilità di gestire la crescita internamente. Non è questione di volersi tenere l’azienda, ma di essere pronti ad accogliere delle parti terze, sia come struttura interna sia come mentalità. A oggi non siamo pronti, ci vorrà del tempo. Tutto qui.
C’è chi avanza anche l’ipotesi di creare alla Borsa di Milano una specie di mercato di riferimento del lusso. Quant’è praticabile? Secondo me, è una stupidaggine. Perché quotarsi a Milano, per farsi uccidere di tasse e burocrazia? Ormai sono scappati tutti. Questa città fino cinque o sei anni fa era la capitale della moda, adesso è Parigi. Se Prada o Armani andassero via, non verrebbe più nessuno. Mi spiace dirlo, ma è così.
Il vostro lavoro è diventato molto più difficile rispetto ai tempi di suo padre? Sì, allora c’erano altre problematiche: bisognava fondare il marchio e lanciarlo, e poi era fatta. Adesso la competizione è molto più dura, ci aggiunga la crisi… Ma sono convinto che, in un modo o nell’altro, ne verremo fuori. Quello invece di cui non riesco a capacitarmi è perché il governo italiano non faccia nulla per incoraggiare e supportare un settore che serve a riequilibrare la bilancia commerciale. Siamo al primo o al secondo posto, con un volume d’affari complessivo di circa 35 miliardi di euro, 19 dei quali vanno in esportazioni. Eppure, non c’è alcuna consapevolezza.
Il fatto è che, contrariamente a quanto avviene in Francia, il lusso non è percepito come un settore essenziale per l’economia. Io andrei oltre. Perché se ragionassi da politico, ruolo che personalmente non mi si addice, e vedessi che un settore esporta per ben 19 miliardi, senza che io lo abbia supportato in alcun modo, potrei pensare che – se solo lo aiutassi un po’– potrebbe raggiungere i 30 miliardi nel giro di poco. Al momento la capacità di crescita delle aziende della moda è talmente importante che basterebbero davvero delle agevolazioni minime, anche per favorire i consumi in patria.
Lei cosa farebbe? Non è il mio mestiere, ma potrei limitarmi a dare i soliti suggerimenti. Il primo è che bisogna smetterla di tassare a qualsiasi livello. L’Italia, per consumi, è più grande di Germania, Inghilterra, Francia e Spagna, perché ha una conformazione geografica che consente di aprire punti di vendita in ogni città. Per sua mentalità l’italiano, anche se è un risparmiatore, ha sempre comprato più di quello che gli serviva. Il tedesco no. Ed è questa mentalità che ha aiutato la crescita negli ultimi cinque/sei anni, ma si sta perdendo a causa della politica di austerity. In più c’è un mercato sommerso incredibile, che è per molti inevitabile, altrimenti dovrebbero chiudere. Si tratta per lo più di pmi che fatturano 10/20 milioni di euro, e sono quelle che poi scelgono i nostri prodotti. Perché i super ricchi preferiscono farsi realizzare tutto su misura e non acquistano i brand di lusso, al massimo se li fanno regalare o, se lo fanno, vogliono qualcosa di speciale per il quale tirare sul prezzo… Sono altri quelli che hanno il desiderio di comprare la marca, e quella categoria la stanno ammazzando.
Quindi? Non resta che detassare per rimettere in circolo anche il denaro sommerso. Attualmente, tutti gli indicatori di benessere come le auto, la casa e la moda sono bloccati. E una volta avviato un simile processo, chi venisse beccato a evadere, non dovrebbe essere processato dopo cinque/sei anni per pagare alla fine – e se va bene – il 10% del dovuto, ma dovrebbe andare direttamente in galera e sborsare fino all’ultimo euro.
Prima ha accennato alla sua stima per Bertelli. Diciamo che i manager nella moda sono tutti un bel po’ più grandi di lei. Come si trova nell’ambiente? È vero, penso di essere il più giovane. Ma in famiglia ci siamo abituati. Nel 2001 mia sorella Beatrice ad appena 30 anni è diventata amministratore delegato, dopo la scomparsa di mio fratello. Gaia a 33 anni è direttore creativo e sta dimostrando di avere un talento veramente straordinario. E poi c’è mia madre, la nostra memoria storica, con la quale tutti insieme condividiamo la gestione del gruppo. Quindi, le decisioni non si prendono mai in solitudine. Chiaramente il mio obiettivo è di attrarre professionalità, perché tutti, anche chi ha 60 anni, deve avvalersi di bravi collaboratori: la più grande capacità di tutti questi personaggi, da Rosso a Ruffini e Bertelli, è sempre stata quella di circondarsi di manager in gamba che potessero gestire le loro aziende.
Come mai ha accettato di diventare uno dei giudici del talent Project Runway? Devo confessare che non guardo molta televisione, ma solo per mancanza di tempo e non perché la snobbo come fanno alcuni. Penso anzi che sia ancora il mezzo di comunicazione più importante. Devo ammettere che in un primo tempo avevo rifiutato, mi ha convinto l’agente di Michelle. E poi mi ha rassicurato il fatto che sarebbe andato su un canale come FoxLife e che sarebbe stato prodotto da FremantleMedia, la stessa società di X Factor. In più ci sarebbero state Eva Herzigova e Alberta Ferretti.
L’avere come compagna una professionista come Michelle Hunziker l’ha rassicurata in qualche modo?Direi che ero senz’altro spaventato dalla prova, e che lei mi ha aiutato a focalizzare meglio il contesto. Ha certamente influito sulla decisione, anche perché se non stessimo insieme probabilmente non mi sarebbe neanche arrivata la proposta… Sa, da quando ci conosciamo sono diventato un personaggio più televisivo (ride).
Che tipo di esperienza è stata?Mi sono divertito ad assegnare le prove e a giudicarle insieme agli altri, soprattutto con l’idea che poi uno di quei ragazzi verrà a lavorare per me, visto che il vincitore farà parte per un anno del reparto creativo della Trussardi. In più, si entra in contatto con professionisti che partecipano come ospiti a varie puntate, e finalmente si può parlare di moda anche in un contesto un po’ più ludico del solito.
A Michael Kors la partecipazione a Project Runway Usa ha portato bene…Vero, la sua azienda si è ripresa alla grande. Ma penso che servirà anche a noi a livello di comunicazione, visto che il canale ha un pubblico che rientra perfettamente nel nostro target di vendita.
Come ha trovato queste giovani leve della creatività italiana?Be’, nelle prime selezioni c’era ovviamente qualche bluff, ma quando sono rimasti gli ultimi cinque, la qualità media dei lavori è diventata alta. Alcuni sono molto bravi come confezionisti, sarti e modellisti ancor più che come stilisti, il che è una cosa straordinaria perché ormai nella moda di adesso non accade più: gli stilisti a volte neanche sanno più disegnare.
In compenso, per loro è un’esperienza e una ribalta importante in un Paese che ormai offre poche chance…Assolutamente d’accordo. Anche perché sarà poi l’azienda a forgiare con l’esperienza il loro talento. A me piace ripetere che fino agli anni ’90 erano gli stilisti a fare le aziende, d’allora in poi sono invece le aziende a fare gli stilisti. Che è una cosa completamente diversa. L’azienda può dare tutta la libertà possibile al creativo, ma solo all’interno di un contesto armonico che tenga conto del patrimonio di stilemi, heritage e storia di un brand, che il creativo deve saper interpretare facendolo proprio. Altrimenti ha fallito il suo mandato. In poche parole: penso che la creatività assoluta sia una cazzata. Baruch Spinoza sosteneva che se non si crea un modello di riferimento, non è possibile definire se una cosa sia giusta, sbagliata o perfettibile. Lo so, sembra un ragionamento scontato, quasi banale, ma provi a spiegarlo a certi creativi…
Abbiamo parlato di moda. Secondo lei, cos’hanno da imparare da voi le aziende di altri settori?La velocità e la capacità di cambiare direzione. Noi siamo abituati a concentrarci su pochi concetti e a essere coerenti. Ma, allo stesso tempo, possiamo cambiare direzione con estrema rapidità. La moda vive di questo.
E voi cosa dovreste imparare dagli altri?Ad avere un approccio più industriale, perché a volte nella nostra smania di continuare a migliorare il processo tendiamo a “distrarci”. Vede, nel definire le collezioni giocano un ruolo fondamentale le insegne negozio, le etichette collezione e l’applicazione dei loghi sui prodotti. Ebbene, soprattutto negli ultimi due ambiti, siamo portati a cambiare spesso, dietro la spinta di una componente creativa a volte troppo invasiva.
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