Allevamenti intensivi: troppa carne al fuoco

Contribuiscono in modo decisivo all’inquinamento globale, eppure sono ancora pochi i provvedimenti presi per arginare la situazione. L’Ue ha iniziato a muoversi in questo senso, ma l’unica soluzione responsabile sarà cambiare le nostre abitudini alimentari

Allevamenti intensivi: troppa carne al fuoco© Getty Images

L’inquinamento atmosferico è considerato uno dei maggiori rischi ambientali per la salute a livello mondiale. Ma mentre sappiamo molto sul ruolo dell’urbanizzazione, delle industrie e dei trasporti, l’impatto delle attività agricole e degli allevamenti intensivi è meno studiato nonostante abbia un ruolo non secondario in termini di emissione di polveri sottili (PM2,5), che causano ogni anno quasi 50 mila morti premature.

L’impatto degli allevamenti intensivi sull’inquinamento atmosferico

Lo studio del Politecnico di Milano che cita questi dati è rivelatore, perché si concentra per la prima volta sul valutare l’impatto di agricoltura e allevamenti intensivi confrontandolo con quello delle fonti inquinanti tradizionali. Secondo l’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, questa voce è responsabile del 15% delle emissioni nocive da particolato PM2,5 nella Pianura padana. Gli allevamenti sono i maggiori responsabili di emissione di ammoniaca nell’aria (il 76,7% a livello nazionale), principale fonte di particolato secondario. Non solo: «Il problema è che il settore allevamenti non può essere oggetto di misure di emergenza», spiega l’Ispra.

Mentre per intervenire sul traffico si può bloccare la circolazione dei veicoli, o per ridurre l’effetto del riscaldamento si può limitare la temperatura interna, per intervenire sulla seconda causa di particolato in Italia si deve ricorrere ad «azioni più strutturali, come la riduzione dei capi o le opzioni tecnologiche». Se si guardano i dati degli ultimi 16 anni, si vede come il settore non abbia subito alcun tipo di miglioramento in termini di inquinamento da PM. Anzi, se nel 2000 gli allevamenti erano responsabili del 10,2% di particolato, nel 2016 la percentuale ha subito un incremento del 32%. Il trend è chiaro: diminuisce l’inquinamento dovuto ad auto, moto e al trasporto su strada, quello legato ad agricoltura, industria e produzione energetica. Ma aumenta la quota legata al riscaldamento e al settore allevamenti (dal 10,2% al 15,1% in 16 anni). Cosa stanno facendo le Regioni per arginare la situazione? Le prime linee guida risalgono al 2016 e prevedono il divieto di spandimento dei reflui zootecnici da novembre a febbraio e la copertura delle vasche di raccolta dei reflui.

Diminuisce l’inquinamento dovuto ad auto, moto e al trasporto su strada, quello legato ad agricoltura, industria e produzione energetica. Ma aumenta la quota legata al riscaldamento e agli allevamenti intensivi

«Le Regioni stabiliscono questi divieti ma il problema sono i controlli», dice Daniela Cancelli di Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile. «Gli allevamenti sono tanti, e i controlli chi li fa? Il ministero dell’Ambiente dovrebbe redigere delle linee guida a livello nazionale, perché lasciare le Regioni e i Comuni a gestire l’emergenza non è efficace». Il contributo di ogni tipo di animale è differente, come emerge dal Focus sulle emissioni da agricoltura e allevamento dell’Ispra a cura di Eleonora Di Cristofaro. Le emissioni di ammoniaca provengono per il 30,2% dall’allevamento delle vacche da latte, il 14% dai suini e il 12,1% dagli avicoli, mentre il 32,1% da altri bovini allevati dall’industria zootecnica.

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Complessivamente, gli allevamenti causano il 79% delle emissioni di gas serra nel settore dell’agricoltura, di cui il 47% proviene dalla fermentazione enterica, il 18,8% dalla gestione delle deiezioni e il 27,6% dai suoli agricoli per le coltivazioni. Sono circa 700 milioni gli animali allevati ogni anno in modo intensivo nel nostro Paese. A loro va attribuito un enorme impiego di risorse che, di fatto, vengono sottratte al consumo umano. I due terzi dei cereali commercializzati nell’Unione Europea diventano mangime. E circa il 70% dei territori agricoli europei è destinato all’alimentazione animale, principalmente per coltivazioni come il mais, che richiede tantissima acqua. Ma non c’è solo la tutela dell’ambiente.

La necessità di una transizione verso diete più sostenibili

C’è anche un tema di salute. «Quella degli animali d’allevamento che vanno tutelati dalla sofferenza di una vita che vita non è», dichiara la deputata Michela Vittoria Brambilla. «Ma anche e soprattutto quella umana: bisogna prevenire zoonosi ed effetti dell’antibiotico-resistenza, a partire dalle zone a più alta densità zootecnica». Anche le lobby agricole europee cominciano a riconoscere la necessità di mangiare meno carne in un rapporto sulla visione condivisa. Il dialogo con i gruppi verdi ha appena portato a un accordo su riforme «urgenti, ambiziose e fattibili» in agricoltura. L’intesa firmata chiede un cambiamento nei sistemi agricoli e alimentari e riconosce che gli europei mangiano più proteine animali di quanto raccomandato dagli scienziati. Afferma che è necessario un sostegno per riequilibrare le diete verso proteine vegetali, come una migliore istruzione, un marketing più rigoroso e acquisizioni volontarie di aziende agricole in regioni che allevano intensivamente il bestiame.

Le parti interessate hanno convenuto sulla necessità di riconsiderare radicalmente i sussidi, chiedendo un «fondo di transizione giusta» per aiutare gli agricoltori ad adottare pratiche sostenibili e un sostegno finanziario mirato a coloro che ne hanno più bisogno. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che ha richiesto il rapporto per sedare le furiose proteste degli agricoltori all’inizio dell’anno, ha affermato che i risultati confluiranno in una visione pianificata per l’agricoltura. «Condividiamo lo stesso obiettivo», ha affermato Von der Leyen. «Solo se gli agricoltori possono vivere della loro terra, investiranno in pratiche più sostenibili. E solo se raggiungeremo insieme i nostri obiettivi climatici e ambientali, gli agricoltori saranno in grado di continuare a guadagnarsi da vivere».

Dunque, l’agricoltura animale è uno dei principali motori del collasso climatico e della distruzione degli habitat naturali, ma finora i leader europei hanno fatto pochi sforzi per orientare le diete ricche di carne e latte verso cereali integrali e fonti di proteine vegetali. Il rapporto non ha fissato obiettivi per la produzione di carne, come l’abbattimento delle mandrie, ma ha chiesto supporto per aiutare a cambiare le abitudini alimentari, come pasti scolastici gratuiti, etichette più dettagliate e riduzioni fiscali su prodotti alimentari sani. Agustín Reyna, direttore generale del gruppo di consumatori Beuc, spiega che avrebbe voluto che le raccomandazioni del rapporto sul bestiame e sul benessere degli animali fossero più audaci, ma ha elogiato la visione complessiva come ben congegnata ed equilibrata: «I consumatori sono disposti a fare la loro parte nella transizione, ma hanno bisogno di una mano».

Domenica 4 luglio è entrata in vigore una versione rivista delle norme Ue sulle emissioni inquinanti dell’industria di trasformazione alimentare, che si estende a un numero maggiore di allevamenti rispetto alla legislazione precedente. Secondo la Commissione europea, la direttiva, battezzata IED 2.0, si applica ora agli «allevamenti di suini e pollame più inquinanti», responsabili di circa il 30% delle emissioni complessive di ammoniaca nell’Ue. La normativa ha suscitato polemiche tra le organizzazioni agricole e i partiti politici di destra, contrari a regolamentare gli allevamenti secondo gli stessi standard dei settori industriali come le giga-fabbriche di batterie e le acciaierie. Le misure si applicano agli allevamenti di suini con più di 350 unità di bestiame equivalente (LSU), pari a circa a 1.100 suini adulti o 700 femmine da riproduzione.

Entro la fine del 2026 la Commissione presenterà una relazione sulla lotta all’inquinamento provocato dagli allevamenti bovini, responsabili del 50% delle emissioni di metano e del 25% di quelle di ammoniaca nell’Ue. Per ridurre l’inquinamento degli allevamenti intensivi l’unica soluzione è diminuire il consumo di carne, una scelta responsabile e sostenibile che ha effetti su tutta l’industria zootecnica. Anche gli allevamenti biologici hanno un impatto ambientale significativo, dunque non rimane che cambiare le abitudini alimentari. Un’altra soluzione è la carne vegetale sintetica, ossia prodotti che imitano il sapore della vera carne realizzati ad esempio con le proteine della soia.


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Immagini crude quelle che si vedono in Food for Profit, primo documentario della giornalista Giulia Innocenzi che da anni si occupa del benessere degli animali negli allevamenti e dell’impatto di questi ultimi sull’ambiente. Nell’ora e mezza di film, girato insieme al regista e sceneggiatore Pablo D’Ambrosi, s’intrecciano due filoni narrativi.

Il primo è quello visto in molte produzioni simili. Innocenzi, con l’aiuto di alcuni collaboratori, visita di nascosto vari allevamenti intensivi dove gli animali non vivono: soffrono, si ammalano, vengono imbottiti di antibiotici e trattati come oggetti asserviti al solo scopo di produrre più carne e latte possibile. Quelli che non vengono uccisi da infezioni, ernie, o allevatori che non sono intenzionati a «sprecare» mangime per bestie considerate poco produttive, sopravvivono, senza mai vedere la luce del sole, quel tanto che basta per ingrassare ed essere macellati.

Nel secondo filone, la giornalista organizza un’audace infiltrazione nel mondo delle lobby della carne. Tra un bicchiere di spumante e una fetta di jamón ibérico, lobbisti ed europarlamentari non si fanno problemi a prendere in considerazione modifiche genetiche ai maiali per produrre suini a sei zampe e a spingere affinché la produzione di carne negli allevamenti intensivi continui la propria crescita a pieno regime. Il film è girato negli anni in cui è stata negoziata la Politica Agricola Comune per il quinquennio 2023-2027. L’insieme di regole con cui l’Unione Europea sceglie come spendere buona parte del proprio budget, dedicata al sostegno economico di allevamenti e agricoltura. Tra i suoi obiettivi c’è anche quello di rendere più sostenibile il settore che costituisce una delle attività umane più inquinanti e distruttive per il pianeta.


Articolo pubblicato sul numero di Business People di novembre 2024. Scarica il numero o abbonati qui

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