In Italia si è dovuto attendere parecchio per dare un adeguato inquadramento giuridico e normativo all’impresa sociale, con il Codice del Terzo Settore varato nel 2017 che ha messo ordine (o comunque ci ha provato) al variegato mondo non profit. Ma in questo, come in tanti altri comparti, ad anticipare i tempi sono stati i cosiddetti pionieri. Coloro cioè che l’impresa sociale l’avevano già pensata, avviata e fatta funzionare prima ancora che fosse prevista nell’ordinamento. Uno di questi è sicuramente Bill Niada, imprenditore dal 1983, da quando cioè ad appena 22 anni decise di lasciare l’Università «quando mi mancava appena un esame», perché un’amica gli parlò del buddismo «e io volevo approfondire quella filosofia di vita che mi ha sempre affascinato molto, pur essendo di padre ebreo convertito al cattolicesimo».
Religione a parte, la storia di questo “imprenditore sociale” (come da più parti viene chiamato) è la traiettoria umana e professionale di chi nasce in un contesto ben definito e con un percorso in qualche modo già segnato («sono figlio di un industriale, ho sempre respirato aria di impresa e per questo non potevo che fare l’imprenditore»), e che però a un certo punto si trova costretto a dover rivedere i suoi piani.
Complice un dramma umano enorme, incommensurabile: la malattia e successivamente la morte della figlia Clementina di appena dieci anni per un neuroblastoma, un brutto male che sette anni di cure negli ospedali di tutto il mondo non sono riusciti a curare.
Gli inizi di Bill Niada e la di Fifty Factory Store
Ma torniamo all’inizio, all’idea di impresa sociale, un marchio di fabbrica per Bill Niada. Tra il 1983 e il 1996 l’aggettivo “sociale” non rappresenta un elemento fondamentale nell’attività imprenditoriale di Bill. Il successo non gli manca: inizia poco più che ventenne con un amico a importare sostanze farmaceutiche dagli Usa, poi passa all’abbigliamento arrivando a produrre per marchi blasonati come Adidas e Banana Republic. Partecipa anche alla fase di startup di Napapijri.
Fino alla creazione della Fifty Factory Store, la prima catena di outlet italiana. Nel 1997 arriva la svolta. Totalmente imprevista e imprevedibile. «Mia figlia Clementina a quattro anni si ammala gravemente. Per me e mia moglie Emilia e per le altre nostre figlie, cambia tutto, anche se io continuo a portare avanti e fare crescere l’impresa».
Iniziano per loro anni davvero difficili: a contatto con la malattia, con il dolore innocente dei bambini, con “pellegrinaggi” frequenti negli ospedali di tutto il mondo fin oltreoceano per salvare la piccola Cleme. Lei comprende la situazione e lascia al padre un disegno: un cuore con un cerotto che sorride. Simbolo del bene che, anche nel dolore, è destinato ad emergere. Per Bill è la consegna di una missione.
«Negli anni della malattia di nostra figlia, abbiamo incontrato molte altre famiglie in situazioni analoghe riscontrando le enormi difficoltà che si trovavano ad affrontare, nel silenzio generale. Abbiamo pensato che fosse arrivato il momento di fare qualcosa».
La nascita di Fondazione Magica Cleme Onlus
Così nel 2004, un anno dopo la morte della piccola, nasce la Fondazione Magica Cleme Onlus, attiva ancora oggi a Milano nel promuovere iniziative ludiche e di intrattenimento, tra cui viaggi e gite, per famiglie con figli malati che altrimenti non riuscirebbero a permettersi questi momenti. «Ero stufo di fare il normale imprenditore, quel che mi era accaduto e le tante famiglie che avevo incontrato mi avevano cambiato. Così ho deciso di trasformare Fifty Factory Store in un’impresa sociale, coinvolgendo tanti amici imprenditori con cui nel 2010 abbiamo avviato Near impresa sociale, che per statuto doveva devolvere la metà degli utili alla Fondazione Near Onlus la quale poi a sua volta erogava i fondi a sostegno dei progetti per bambini e ragazzi malati. Eravamo dei pionieri, le norme non favorivano di certo questo incontro tra mondo dell’impresa e del non profit».
Il lavoro di Fondazione B.Live Ets
L’idea maturata nel tempo da Bill Niada arriva ormai alla sua piena definizione. Anche se ancora manca qualche tassello per completare un mosaico, che in realtà è sempre destinato a rinnovarsi. Oggi, infatti, accanto alla Fondazione Magica Cleme Onlus, a dare corpo ai progetti c’è la Fondazione B.Live Ets con sede a Milano (nel PL7 del Gruppo One Day) attorno alla quale gravitano circa 200 ragazzi (perlopiù tra i 18 e 30 anni) affetti da gravi patologie croniche, provenienti da diversi ospedali del territorio, che vengono coinvolti in veri e propri servizi alle aziende.
Così con orgoglio, professionalità e amore, imparano a lavorare per veri e propri clienti: che si tratti di collezioni di gioielli, borse, bio-cosmesi, fino a servizi di comunicazione e formazione. «Non volevamo più limitarci a promuovere un ente non profit che facesse progetti sociali a favore di questi ragazzi, era arrivato il momento di coinvolgerli in un progetto professionalizzante». Così prende forma il mensile il Bullone e la Fondazione all’interno della quale si sviluppano numerose attività. Tra queste, ci sono i servizi di giornalismo sociale che i ragazzi svolgono per conto di aziende.
«Forniamo assistenza alle imprese che hanno bisogno di comunicare attraverso i nostri ragazzi, i quali dopo un percorso si sono iscritti all’Ordine dei giornalisti e producono contenuti utili alle aziende per comunicare quel che fanno». Insomma, il Bullone diventa una sorta dii agenzia di comunicazione specializzata in temi come Csr e inclusione. Ma non solo. «Nel tempo», incalza Bill Niada, «abbiamo costituito anche una sezione specializzata nella formazione e nel team building, creando così un altro servizio che offriamo alle aziende. Ciò che per noi è più importante», continua il presidente e fondatore di Fondazione B.Live Ets, «è il fatto di aiutare questi ragazzi a vivere in un clima aziendale e imparare una professione, sviluppando competenze. Qui non si fanno sconti, non si trattano i giovani come dei “poverini” con un approccio che non li aiuta a crescere, li si guarda per quel che veramente sono e valgono, che va ben oltre la loro malattia». I ragazzi si sentono stimati e qui rinascono».
Anche se può succedere che i loro percorsi di cura non portino agli effetti sperati, «in quel caso», riferisce Niada, «la mia esperienza di padre che ha perso una figlia per queste malattie diventa molto importante nell’aiutare tutti ad affrontare la situazione».
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