Rinnovabili ancora al palo, sotto la media europea. Per combattere il cambiamento climatico la strada è chiara: ridurre le emissioni di gas serra, quindi abbandonare i combustibili fossili che le provocano. Oggi i nostri consumi energetici rinnovabili si aggirano intorno al 30% del totale (incluso l’idroelettrico). Ma l’indicatore più utile per capire i progressi è quello delle installazioni di capacità rinnovabile.
Entro il 2030, per rimanere entro gli obiettivi europei (riduzione del 55% delle emissioni), dovremmo installare circa 65 gigawatt di impianti solari ed eolici. Significano 9 GW all’anno. Negli ultimi anni siamo rimasti ben al di sotto dei quattro, e addirittura tra 2013 e 2021 sotto quota 2 GW, mentre la media europea cresceva del 10% all’anno. Nonostante le richieste di connessione a Terna siano per 146 gigawatt, più del doppio di quelle che dobbiamo fare.
Gli ostacoli alla diffusione delle rinnovabili in Italia
Perché si produce così poco? Partiamo dalle autorizzazioni. Per approvare un parco eolico o fotovoltaico servono cinque passaggi autorizzativi. E poi altri sei per connetterlo alla rete di Terna. Tempo: sei, sette anni. Quando va tutto bene. Perché Regioni, Comuni, Province spesso bloccano i progetti non graditi. Quando non c’è accordo, chi deve decidere è Palazzo Chigi. Chiedere quali sono i criteri di valutazione delle Sovrintendenze, alle dipendenze del ministero della Cultura, è esercizio vano.
La stella polare dovrebbe essere la direttiva europea sul paesaggio. Ma il paesaggio è un concetto filosofico: con buona approssimazione potremmo definirlo come la sintesi dell’interazione tra uomo e ambiente. Se ci sono progetti che vanno a impattare sulla vista da diverse alture, si segnala dunque la sua trasformazione, e il voto è negativo. Bisogna fare i conti con i territori e la pressione del consenso, che determina un innesco di relazioni, voti, dunque poteri ostativi.
Difficile per un sindaco o un presidente di Regione rivincere le elezioni se approva progetti che i cittadini non vogliono. Eppure, dovrebbero contare solo i requisiti che la natura impone: le mappe dei venti, l’irraggiamento solare, oppure la densità dei pannelli installati in una determinata zona. Un altro ostacolo è il divieto di accumulo: la legge impedisce al distributore di energia, cioè Terna, di stoccare quella prodotta da fonti rinnovabili. Vuol dire che quando c’è molto vento e si produce più energia di quella che serve, quella in eccesso va persa, causando da una parte un mancato ritorno sull’investimento, e dall’altra una riduzione della quantità di energia disponibile.
In tanti fanno richiesta, in pochi investono
Le conseguenze sono due: una scarsa partecipazione alle aste bandite da Terna per i grandi impianti e l’aumento dei prezzi medi di assegnazione. La ricaduta di una programmazione non definita si scarica sulla bolletta. Da tempo il costo delle rinnovabili è più vantaggioso delle altre fonti di produzione di energia elettrica. Le esperienze del Nord Europa stanno spingendo anche le piattaforme off shore. Al largo delle coste di Puglia, Sicilia e Sardegna, sono state fatte richieste per 17 gigawatt. Ma tutto è sospeso in una lunga catena di punti interrogativi. Gli impianti si fanno solo se Terna costruisce gli elettrodotti che collegano le pale alla terraferma, e l’azienda, controllata dalla pubblica Cassa depositi e prestiti, i soldi li investe solo se è sicura che gli impianti si faranno.
Tutte queste incertezze spiegano perché in tanti fanno richiesta, ma quando anni dopo arriva l’ok, in pochi investono. Nonostante il piano da 18 miliardi in dieci anni annunciato da Terna, non è così facile mettere a fattore comune gli investimenti dei privati con le grandi dorsali elettriche del Paese. Di tempo però ce n’è poco e i 5,9 miliardi del Pnrr previsti per le energie rischiamo di dilapidarli producendo futuro debito.
Perché si torna a parlare di energia nucleare
Altro tema riguarda le aree idonee dove installare gli impianti. Vanno individuate fra quelle già sfruttate ma deteriorate, nei siti industriali, fra i terreni classificati come agricoli ma abbandonati. Uno studio del Politecnico di Milano stima che l’installazione di 30 gigawatt da fonti rinnovabili tramite impianti di grande taglia richiederebbe l’uso di 460 chilometri quadrati di territorio, che corrispondono a meno del 4% delle aree agricole inutilizzate. Con l’agrivoltaico ancora meno: riducendo quasi a zero l’utilizzo di queste percentuali minime di suolo. Per questi motivi l’energia nucleare sta tornando di attualità. Una decina di anni fa, dopo il disastro di Fukushima, tutto il mondo sembrava volerne la fine. Oggi, invece, il fronte non è più così compatto.
Mentre la Germania chiude le ultime centrali e i Paesi Ue si sono divisi sulla proposta di Bruxelles di inserire il nucleare negli investimenti “verdi”, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato appena due anni fa la costruzione di sei nuovi reattori, e poi di altri otto, entro il 2050. E anche il resto del mondo non mostra dubbi: il Giappone riapre progressivamente gli impianti fermati nel 2011 (dieci da allora) e la Cina ne ha 14 in costruzione.
Anche gli Stati Uniti, primo produttore mondiale con 93 reattori operativi (ma da 30 anni non ne aggiungono alcuno), iniziano a temere che le energie rinnovabili possano non bastare per l’obiettivo «emissioni zero». L’argomento a favore è sintetizzato da Bill Gates nel suo libro bestseller del 2021 sul clima: «Il nucleare», scrive, «è l’unica fonte di energia a zero emissioni in grado di fornire affidabilmente corrente giorno e notte, in qualunque stagione, praticamente ovunque sul pianeta, e che abbia dimostrato di funzionare su vasta scala».
Energia nucleare: cos’è cambiato dai referendum degli italiani
Ma quanto è cambiata oggi la tecnologia nucleare, e quanto è più affidabile rispetto al 1987 e al 2011, anni in cui gli italiani l’hanno bocciata solennemente in due diversi referendum? I problemi cruciali restano sempre gli stessi dalla nascita, ancora prima dei costi economici eccessivi e dei tempi di realizzazione degli impianti fuori controllo. Ovvero: la sicurezza, la proliferazione per usi militari, il destino delle scorie che continuano a emettere radiazioni per migliaia di anni e che devono essere seppellite in profondità.
La cosiddetta “terza generazione avanzata” o gli small modular reactors, di cui si discute oggi, sono in grado di assicurare l’“accettabilità sociale”? A oggi nel mondo sono operativi 439 reattori, mentre se ne contano 52 in costruzione e un altro centinaio è in programma. La stragrande maggioranza di quelli attivi è però costituita da centrali di “seconda generazione”, come quelle francesi.
La quarta generazione di impianti nucleari
Ma è sul fronte delle scorie radioattive che ci si attende il grande salto: la promessa tecnologica è quella della “quarta generazione”. Animatori del programma sono gli Usa, che nel 2001 hanno creato il Generation IV International Forum: oggi vi partecipano 13 Paesi e l’Ue tramite l’Euratom (quindi anche l’Italia).
Sono stati selezionati sei progetti, ognuno con diverse caratteristiche. Che cosa promettono? Di rendere la generazione di elettricità più flessibile. Di operare ad altissima temperatura, quindi con rendimenti più elevati e con la possibilità di produrre direttamente calore per l’industria, produrre idrogeno o desalinizzare l’acqua marina. Di “chiudere” il ciclo del combustibile, ovvero di riciclare al proprio interno quasi tutte le scorie altamente radioattive prodotte. Di implementare sistemi di sicurezza “passivi”, che sfruttino le caratteristiche dei materiali utilizzati per bloccare automaticamente la fissione oltre le soglie giudicate rischiose. Prospettive di grande rilievo, che però non daranno frutti commerciali prima del 2035. Per questo il mondo a emissioni zero passa inevitabilmente dalla ricerca scientifica. Che ci porta dritto al nuovo nucleare. Per salvare il pianeta dal disastro.
Articolo pubblicato su Business People di gennaio-febbraio 2024 – Scarica il numero o abbonati qui
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