Valorizzare le disuguaglianze: intervista ad Arianna Sessini di Illycaffè

Nelle parole dell'HR Business Partner e Responsabile People Development dell'azienda l’impostazione che, fin dalle origini, la famiglia triestina ha dato a Illycaffè. E che la anima ancora oggi, a quasi un secolo di distanza

Valorizzare le disuguaglianze: intervista ad Arianna Sessini di IllycaffèEntrata in azienda nel 2018 come Hr Manager, Arianna Sessini vanta esperienze precedenti in aziende del lusso come Salvatore Ferragamo e Bulgari Gioielli

Azienda storica, quasi centenaria, autentica eccellenza italiana, Illycaffè è stata motore di innovazione sotto molti aspetti sin dalla fondazione, nel 1933. A cominciare dal sistema di pressurizzazione delle confezioni, per preservare l’aroma del caffè, all’invenzione della macchina espresso da bar e da casa, della cialda monoporzione. Dall’apertura della prima università del caffè (a Napoli e poi a Trieste, dove ha sede l’azienda) all’arte e design per impreziosire tazzine e accessori. E anche sul tema D&I il fondatore, Francesco Illy, e il suo erede Ernesto avevano idee rivoluzionarie per l’epoca. «L’attenzione alle tematiche D&I nasce con Illycaffè. È da sempre un pilastro della cultura organizzativa aziendale, permea tutti i nostri processi di gestione e di sviluppo delle risorse umane». Ci spiega Arianna Sessini, HR Manager e responsabile Talent Acquisition & People Development per Illycaffè. «Ernesto Illy diceva che la sola prospettiva economica non può bastare a legittimare l’operato di un’impresa ma deve essere integrata con il rispetto dell’uomo, della comunità e dell’ambiente. Il rispetto e la valorizzazione delle disuguaglianze derivano quindi dall’impostazione che la famiglia Illy ha dato all’operato dell’azienda e che nel tempo è stata portata avanti e rinforzata».

In che modo integrate inclusione e diversità nel vostro core business?
Si potrebbe affermare che è proprio nel nostro Dna. Il nostro stesso modello di business e la nostra catena del valore sono progettati su queste basi. Soprattutto nelle situazioni in cui il tessuto sociale può essere più debole, nelle economie più fragili, ad esempio, abbiamo in corso progetti che mirano a promuovere lo sviluppo delle tecniche di coltivazione sia per garantire un livello qualitativo più alto e l’ottimizzazione delle risorse ambientali, sia per dare loro la possibilità di accedere al mercato ad un prezzo del prodotto più elevato e quindi e essere qualitativamente competitivi con realtà sicuramente più grandi e più strutturate, ma tenendo sempre presente l’aspetto sociale. Operare nel mercato non deve essere, infatti, a discapito del diritto all’istruzione e all’infanzia, per questo l’azienda partecipa alla costruzione di scuole in queste comunità e finanzia progetti per promuovere l’istruzione e l’imprenditorialità femminile, in modo da creare opportunità di sviluppo e concrete reti di sostegno sul medio-lungo periodo. Non si tratta quindi solo di parole ma di fatti concreti.

Le buone pratiche di DE&I in un settore come il vostro che opera in economie in cui la trasparenza e la sostenibilità non sono sempre prioritarie, possono essere difficili da verificare. Come ci riuscite?
Affianchiamo le comunità di produttori e tutte le professionalità che lavorano sul territorio, abbiamo una rete di ispettori che verifica il rispetto dei nostri valori. Siamo stati tra i primi ad ottenere una certificazione di sostenibilità della nostra filiera produttiva e conduciamo audit costanti sui nostri fornitori. Nel tempo abbiamo acquisito nuove certificazioni in diversi ambiti. L’ultima, la UNI/PdR1 25:2022, riguarda il tema della parità di genere. Anche se esula dalla filiera strettamente produttiva, si inserisce in un sistema valoriale che ci caratterizza e ci consente di uscire da una sorta di autoreferenzialità, perché avere un ente terzo che effettua le sue verifiche ci offre un sistema di misurazione più oggettivo che può aprire nuove prospettive di miglioramento. Lo standard di riferimento, infatti, richiede dei kpi chiaramente misurabili e dunque interventi molto specifici. Questo ci ha consentito di prendere consapevolezza del percorso finora intrapreso e di strutturare le iniziative che portiamo avanti con sempre maggior concretezza.

Tra le altre cose Illycaffè cerca di sostenere le donne raccoglitrici, che nelle coltivazioni sarebbero costrette a lasciare i bambini a casa, creando concrete reti di sostegno sul medio-lungo periodo

Su quali aspetti vi siete concentrati in questo senso?
In aggiunta all’approccio naturalmente inclusivo, diciamo dal Covid in poi, abbiamo rivolto maggior attenzione ai temi del bilanciamento dell’equilibrio vita-lavoro, di supporto alla genitorialità o delle categorie più fragili, attraverso orari flessibili, smart working semplificato per i genitori e per i caregivers. Anche con il ripristino della normativa pre-emergenziale, abbiamo comunque scelto di continuare sulla strada del supporto. Inoltre, siamo molto attenti al gender pay gap. Siamo già sopra la media nazionale, ma puntiamo a ridurlo ulteriormente attraverso una giusta distribuzione delle opportunità di crescita all’interno dell’azienda, attribuendo un ruolo fondamentale alla meritocrazia, che aiuta a neutralizzare il rischio di disuguaglianze e porta con se l’equità retributiva.

L’età media della forza lavoro in Italia sta crescendo sempre più, come state affrontando il rischio di esclusione del personale più avanti con gli anni?
Il tema è effettivamente attuale e già da quest’anno nella nostra agenda HR abbiamo un focus sul tema dell’integrazione intergenerazionale mirato a costruire un linguaggio comune che permetta di conciliare generazioni con un vissuto e una prospettiva completamente differenti. Per noi si tratta di creare delle opportunità di scambio, di innescare un processo di valorizzazione di entrambi i punti di vista. Questo passa senz’altro attraverso la formazione, i processi di mentoring e di reverse mentoring, per valorizzare le competenze delle professionalità più senior che vanno ad arricchire il bagaglio di quelle più junior ma anche viceversa, le competenze nuove possono essere trasmesse ai collaboratori più senior. Il tema delle nuove tecnologie si presta benissimo a questo processo sia in termini tecnici che di linguaggi di comunicazione che spesso rappresentano il limite principale nel trovare il punto di incontro. In questo momento storico l’aggiornamento e la mescolanza delle competenze all’interno di un’azienda è sia un modo per ridurre il gap generazionale che una leva competitiva.

Quindi è vero che investire in politiche di inclusione è vantaggioso in termini di business?
Esistono studi che lo confermano, e per esperienza sono assolutamente d’accordo. I dati stessi dimostrano che c’è una correlazione diretta tra il grado di inclusione è il grado di sviluppo delle organizzazioni. Anche nel campo del recruitment, che in Italia sta generalmente soffrendo, l’adozione di un approccio inclusivo e di valorizzazione delle diversità, non di appiattimento delle differenze, è una potente leva attrattiva. Le nuove generazioni sono più sensibili a questi aspetti e questo lo si vede bene nel momento in cui dobbiamo attrarre i talenti ma soprattutto trattenerli e fidelizzare le nostre persone, il senso di appartenenza si sviluppa in maniera più profonda.

Vi sentite supportati dall’attuale sistema Paese nelle vostre scelte in termini di DE&I?
L’Italia è in una situazione abbastanza eterogenea, il cambiamento che in questo momento viene promosso all’interno di molte aziende private non trova sempre una conferma negli altri contesti sociali. Manca ancora un approccio sistemico all’inclusione, riuscire a farsi strada facendo leva solo sul proprio merito è spesso percepito ancora come ‘eccezione’ e questo è significativo. Le istituzioni dovrebbero farsi promotrici del cambiamento attraverso politiche di formazione e istruzione, per incidere sull’approccio culturale innanzitutto. E poi agire sulla distribuzione delle possibilità di accesso ai mezzi e alle opportunità di ascesa sociale in maniera più equa. Sarebbero auspicabili incentivi per le realtà imprenditoriali impegnate in politiche di inclusione che in un tessuto produttivo come il nostro, fatto di pmi, non sono sempre facilmente praticabili, perché presuppongono competenze e investimenti importanti. Incentivi che non necessariamente debbano essere di tipo economico, ma anche sotto forma di servizi e agevolazioni.


Questa intervista è tratta dallo speciale Diversity, Equity & Inclusion di Business People di maggio 2024, scarica il numero o abbonati qui

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