Dark, ghost e cloud kitchen: tutto un altro delivery

La rivoluzione della ristorazione è senza tempo e senza spazio. E si basa su delivery e digitalizzazione. In due parole: smart kitchen, ristoranti non aperti al pubblico e ideati con il solo scopo di cucinare cibi destinati alla consegna a domicilio o all’asporto. Benché si tratti di un format già presente da alcuni anni sul mercato, la trasformazione in vero e proprio “fenomeno del foodservice” è stata spinta dalla pandemia.

A evidenziarlo sono i numeri. Il rapporto Osservatorio Ristorazione 2021, spin-off dell’agenzia Ristoratore Top, fotografa infatti un anno difficile per il comparto. Nel 2020 il settore avrebbe perso circa il 40% del volume di fatturato registrato nel 2019, anno in cui la spesa fuori casa valeva 86 miliardi di euro (fonte Ismea). Il quadro cambia, però, se si considera il solo online food delivery. Per Ubs il giro d’affari su scala globale aumenterà di dieci volte in dieci anni, raggiungendo i 365 miliardi di dollari entro il 2030. Un trend che sembra in crescita anche su scala nazionale: secondo quanto riportato dalla quarta edizione della Mappa del cibo a domicilio in Italia di Just Eat, lo scorso anno il mercato valeva tra i 700 e gli 800 milioni di euro, rappresentando una fetta compresa tra il 20% e il 25% dell’intero settore della consegna a domicilio. Nel 2019 la stessa quota era ferma a 18 punti percentuali e il valore complessivo del mercato non superava i 560 milioni di euro.

«Sulla nostra app», scrive nel report Daniele Contini, Country Manager di Just Eat in Italia, «è stata registrata nell’ultimo anno una crescita del 30% dei ristoranti che hanno scelto Just Eat come partner per gli ordini a domicilio, con richieste di attivazione del servizio di cinque o sei volte superiori durante il periodo del lockdown». È dunque proprio nell’emergenza sanitaria ed economica che la produzione di cibi destinati al delivery ha iniziato ad affermarsi. A chiusure prolungate, distanziamento sociale e limiti di orario, molti ristoratori hanno infatti reagito investendo nel potenziamento delle consegne a domicilio e del take away, uniche forme di fatturato per buona parte del 2020. Una scelta per sopravvivere in assenza di clienti in sala, per alcuni; una strategia ragionata, per altri. E proprio in questa seconda categoria rientrano le smart kitchen.

L’espressione, tradotta in italiano con “cucine remote”, racchiude in sé più modelli di business. I più diffusi oggi in Italia sono tre: dark kitchen, ghost kitchen e cloud kitchen. A spiegarne le differenze è Michele Ardoni, Ceo di Dynamic Food Brands, start up innovativa che si occupa di sviluppare e progettare i nuovi format della ristorazione. «La formula più semplice e meno impattante è la cosiddetta dark kitchen, un modello in cui il ristoratore, servendosi di un’area della cucina del proprio ristorante, diversifica l’offerta e aumenta la capacità di produrre reddito». L’operatore utilizza le risorse che ha già a disposizione – attrezzature, personale, stock di materie prime e spazio fisico – per confezionare cibo esclusivamente destinato al delivery, operando a volte anche con un brand diverso da quello dell’insegna del ristorante in cui vengono cucinati i piatti. «La gestione è ottimale soprattutto in caso di ristoratori operativi in una zona con flussi di clienti concentrati in una ristretta porzione di tempo, poiché permette di non creare conflitto con la produzione dedicata al servizio al tavolo», spiega Ardoni.

Poi ci sono le ghost kitchen, laboratori “fantasma” che producono esclusivamente per il delivery o il take away. «Non esiste servizio al tavolo né altro spazio fisico per il consumatore, ma solo una cucina in cui un operatore sviluppa uno o più brand. Sotto un’unica gestione vi sono dunque offerte etniche diversificate che garantiscono profondità di offerta e ottimizzazione dei cicli di lavoro». L’ultima soluzione sono le cloud kitchen, le “cucine condivise”, «quanto di più simile esista al co-working dedicato alla ristorazione. Una società immobiliare investe in un contesto urbano con una buona catchment area, suddivide una macrostruttura in singole cucine preallestite e affitta le singole unità a più marchi della ristorazione che non hanno alcun rapporto imprenditoriale tra loro», continua il Ceo di Dynamic Food Brands. Il coordinamento degli spazi comuni e la creazione di relazioni con le piattaforme di delivery sono a carico della società di gestione, che può offrire ai ristoratori anche servizi di consulenza per inserirsi nel mercato.

Format diversi dunque, ma con punti in comune. Il primo è l’abbattimento dei costi fissi tipici di un ristorante tradizionale, come personale di sala, arredamento e manutenzione. Per le cloud kitchen, questo si traduce in bassi costi di equipaggiamento, poiché la maggior parte delle attrezzature sono fornite dalla società che si occupa di allestire la singola unità, e in un ridotto rischio di impresa, se il brand non dovesse raggiungere il Roi in tempi brevi. Il secondo è lo sviluppo di prodotti pensati e ottimizzati per la consegna a domicilio, con lo scopo sia di fidelizzare coloro che acquistano solo tramite delivery che, nel caso di un ristoratore proprietario di un ristorante fisico, di allargare la clientela senza penalizzare l’esperienza in sala. La pandemia, modificando in parte le abitudini di consumo, ha infatti indirizzato verso l’online food delivery una quota di mercato che non aveva mai utilizzato questo servizio. «Un ristoratore potrebbe trovarsi a dover sostenere un costo di struttura che non è bilanciato da un volume di clientela pari a quello pre-pandemico. Con una dark kitchen, per esempio, non solo si utilizzano risorse già a disposizione per aumentare il proprio fatturato, ma l’orario di servizio è superiore a quello del flusso della clientela fisica», precisa Michele Ardoni. Il terzo è l’utilizzo delle piattaforme di aggregazione e distribuzione per la consegna a domicilio, con flotte di rider pronti per ritirare quanto appena prodotto nelle cucine-laboratorio. Ma non solo. Tema centrale è infatti anche la raccolta dei dati degli utenti, utilizzabili sia per migliorare l’esperienza di consumo e ampliare l’offerta gastronomica che per sviluppare nuovi modelli di business, come quello del virtual franchise.

Il format dei virtual brand è già stato adottato in Italia da Glovo e Deliveroo. Il funzionamento è il seguente: attraverso un’analisi della domanda di consumo di una certa area viene sviluppato un brand destinato esclusivamente al delivery; un operatore di una dark, ghost o cloud kitchen o di un ristorante fisico adotta il manuale operativo del virtual brand, contenente le informazioni necessarie per produrlo, promuoverlo e distribuirlo. «Diamo la possibilità ai nostri ristoranti partner di aprire un ristorante virtuale, un virtual brand appunto», spiega Matteo Sarzana, General Manager di Deliveroo Italia, «che è presente e disponibile esclusivamente sulla app, con un nuovo marchio, un nuovo menu e, quindi, una nuova proposta commerciale dedicata all’online, che va ad affiancare l’offerta del ristorante fisico». Utilizzando le cucine e il know how del ristorante tradizionale, ne deriva un «posizionamento commerciale estremamente puntuale ed efficace. In questo modo i ristoratori possono espandere la loro value proposition, intercettando nuovi clienti e nuovo business».

Che si tratti di smart kitchen come fenomeno già consolidato o come risultato di eccessivo hype per un trend da poco sbarcato in Italia, è presto per dirlo. «Se consideriamo che qui il costo del lavoro, del cibo e di utilizzo delle piattaforme valgono in media il 30% ciascuno, è facile comprendere come si tratti di un format che per funzionare non deve essere la copia di quanto studiato per mercati con costi diversi», conclude Ardoni. «Serve progettazione dei processi e dei flussi produttivi, definizione rigida dei valori economici della filiera, utilizzo esclusivo dei dati da parte del brand affinché la conoscenza del cliente sia equiparabile a quella che ha il cameriere con cui dialoghi in sala. In una frase: il delivery come leva di marketing».

Articolo pubblicato su Business People, settembre 2021

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