Frode fiscale, un anno e mezzo per Dolce e Gabbana

La Corte d’appello di Milano ha confermato la condanna per i due stilisti. Pena ridotta per prescrizione

Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono stati condannati a un anno e sei mesi per omessa dichiarazione dei redditi. A confermare la condanna, con la pena ridotta per intervenuta prescrizione degli episodi risalenti al 2004, la Corte d’appello di Milano. In primo grado i due stilisti erano stati condannati entrambi a un anno e otto mesi di reclusione.

Subito annunciato il ricorso in cassazione. «»Faremo ricorso, del resto già la Procura generale aveva capito che non c’era proprio niente» ha dichiarato il legale Massimo Dinoia facendo riferimento alla richiesta di assoluzione formulata dalla procura generale di Milano, con l’Agenzia delle Entrate, parte civile nel procedimento, a richiedere invece la conferma della condanna di primo grado

A 1 anno e 6 mesi è stato condannato anche il commercialista Luciano Patelli; mentre a 1 anno e 2 mesi sono stati condannati tre manager del gruppo, tra cui Alfonso Dolce, fratello di Domenico. Anche per loro le pene fra il primo e il secondo grado sono state abbassate.

Confermato dai giudici anche il risarcimento per danno morale di 500 mila euro a favore dell’Agenzia delle Entrate.

Secondo i giudici i due stilisti sarebbero stati responsabili di concorso in truffa ai danni dello Stato in relazione alla presunta esterovestizione della capogruppo D&G. I fatti risalgono al periodo compreso tra il 2004 e il 2005, quando la maison di moda cedette tutti i marchi del gruppo a una società in Lussemburgo, la Gado sarl (acronimo di Gabbana e Dolce), controllata dalla Dolce & Gabbana Luxembourg, per 360 milioni di euro. Secondo l’accusa attraverso questa operazione non solo i proventi, derivanti dallo sfruttamento del brand, sarebbero stati indebitamente tassati fuori dall’Italia – e sottoposti a un regime fiscale decisamente più favorevole (in Lussemburgo il prelievo fiscale sui profitti si attesta intorno al 3%) –, ma la cessione stessa del marchio sarebbe stata effettuata a un prezzo nettamente inferiore al valore di mercato (che superava allora i 700 milioni di euro) generando, così, un risparmio di imposte.

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