«Dicono che il denaro non faccia la felicità, ma se devo piangere preferisco farlo sul sedile posteriore di una Rolls Royce piuttosto che su quello di un vagone del metrò». Dal suo punto di vista di ex bambina povera cresciuta in un orfanotrofio, non aveva certo tutti i torti, Marylin Monroe. Eppure studiosi internazionali e illustri economisti, con tanto di riscontri numerici alla mano, tendono a storcere il naso di fronte a certi luoghi comuni. «I soldi rimangono solo una parte di ciò che ci rende realmente appagati, e quello che stiamo scoprendo sempre di più sono i limiti di ciò che si può comprare con essi», ha sostenuto Andrew T. Jebb, coordinatore di una recente ricerca della Purdue University, pubblicata sulle pagine di Nature Human Behaviour. Un’indagine, quella di Jebb e del suo team, volta a calcolare la cifra annua necessaria per sentirsi pienamente soddisfatti, al di sopra della quale risulterebbe superfluo e ininfluente, per il proprio stato d’animo, continuare ad accumulare ricchezza. Secondo tale studio, il benessere psicologico, inteso come una preponderanza di emozioni positive nel quotidiano, si potrebbe raggiungere con circa 60-75 mila dollari l’anno. La seconda cifra del range, peraltro, è la stessa “soglia della felicità” individuata già nel 2010 da un’analisi di Angus Deaton e Daniel Kahneman, Premi Nobel per l’economia, un confine oltre il quale ulteriori guadagni non andrebbero ad aumentare le possibilità di fare quel che più conta per stare bene emotivamente, come «passare tempo con le persone che si amano, evitare dolori e patologie e divertirsi nei momenti liberi», per citare Kahneman.Tuttavia, Jebb e la sua squadra di ricercatori hanno parzialmente alzato l’asticella, aggiungendo che per essere davvero soddisfatti e contenti, occorrerebbero redditi annui da 95 mila dollari, una media planetaria suscettibile di lievi modifiche a seconda della zona geografica considerata e del relativo potere di acquisto. E così si parlerebbe di 100 mila dollari l’anno in Europa Occidentale, 105 mila negli Usa, 125 mila in Australia e Nuova Zelanda.
Ma attenzione: gli accademici della Purdue hanno pure dimostrato che la curva che descrive la relazione tra aumento della felicità e incremento delle entrate va in flessione una volta superato il tetto massimo: con guadagni maggiori lievitano pure le preoccupazioni, l’ansia sociale, il bisogno compulsivo di accumulare ricchezza, il tutto a discapito della serenità quotidiana. È significativo anche l’esito del World Happiness Report 2018 che, per tastare il polso della quality of life, nazione per nazione, è andato oltre agli indicatori tradizionali come il pil pro capite per concentrarsi su un quadro multifattoriale che include primati produttivi e tecnologici, efficienza dei servizi, accesso all’istruzione, strutture sanitarie adeguate, rispetto e tutela ambientale. Sono emersi risultati inaspettati, come il primo posto di un piccolo Stato come la Finlandia o l’11esima posizione di Israele. Se la Costa Rica è 13esima, con un tessuto sociale povero e indigente, ma tenuto insieme da solide relazioni familiari, la Cina è 86esima: paga la limitata libertà di pensiero, malgrado sia la seconda potenza economica mondiale dopo gli Stati Uniti. Sorprendono anche questi ultimi, solo 18esimi nonostante la costante ripresa economica. Quarantasettesima l’Italia, dietro la Tailandia.
Eppure, di recente, il ministero dell’Economia e delle Finanze ha espresso un cauto ottimismo per una leggera accelerazione dell’aumento del prodotto interno lordo tricolore, che, secondo le stime, potrebbe passare dall’1,5% del 2017 all’1,6% di quest’anno. «C’è una strana relazione tra sviluppo – trainato dai processi di finanziarizzazione – e declino del livello di benessere», evidenzia Gaetano Fausto Esposito, economista e segretario generale di Assocamerestero. Per capirne le ragioni, bisogna risalire alla formula del capitalismo neoliberista, affermatosi a partire dalla fine degli anni ‘70, sulla base del modello anglosassone. «Una sorta di triangolo equilatero», spiega l’esperto, «composto da tre dimensioni – responsabilità limitata, proprietà privata e finanza – originariamente equivalenti, ma, con il tempo, sbilanciatesi a vantaggio della finanza. Questa, da fattore di supporto, è divenuta infrastruttura di riferimento rispetto agli aspetti di economia reale. Oggi, poi, le dimensioni sopra elencate sono state sostituite da accesso, condivisione e personalizzazione, pilastri di un moderno capitalismo civile». Prosegue Esposito: «Nel 2017 le capitalizzazioni di Borsa hanno segnato un record assoluto. L’aumento delle sperequazioni basate sulla speculazione finanziaria finisce per erodere i processi fiduciari, sfavorisce la relazionalità tra le persone e, in buona sostanza, rende molto più problematico il conseguimento di adeguati livelli di ben e di buon vivere». Non solo. «Quando le retribuzioni dei manager sono ancorate ai cosiddetti capital gain, la distribuzione del reddito subisce ulteriori squilibri, i ricchi diventano più ricchi e gli anelli deboli vanno ancora di più in perdita».
Nell’ultimo anno, come riportato da Bloomberg, i 500 Paperoni più danarosi del mondo hanno incrementato il loro patrimonio di oltre mille miliardi di dollari. Per contro, i 3,5 miliardi dei più poveri al mondo (il 70% della popolazione mondiale) possiedono meno di 10 mila dollari a testa, il 2,7% della ricchezza mondiale. «A uscirne con le ossa rotte è stata soprattutto la classe media. Si è bloccato l’ascensore sociale, che consente ai figli di ambire a un miglioramento della propria posizione futura e, crescendo la diseguaglianza, si è ridotto il livello di felicità delle persone». Secondo il segretario di Assocamerestero, la chiave di volta per uscire dall’impasse consisterebbe nella ricomposizione della relazione tra tre capitali differenti di cui disponiamo: idee, soldi, ideali. «Siamo chiamati tutti – i governi, ma anche noi stessi, nei comportamenti quotidiani – a dare più valore ai “valori veri”. E a tornare a una ripartizione più equa delle risorse». Un tema caro, quest’ultimo, anche all’economista indiano Amartya Sen, che, non a caso, lo considera strettamente legato a quello dell’happiness, o, per meglio dire, well-being, ben-essere. Ecco perché, per il Premio Nobel 1998, i poteri decisionali devono creare le condizioni per cui gli esseri umani vedano rispettati i propri diritti in modo tale da essere capaci di sviluppare pienamente le loro potenzialità creative traducendole in iniziative proficue. Sono precondizioni imprescindibili per conti in banca fiorenti, certo, ma anche per cuori contenti a qualsiasi latitudine.
© Riproduzione riservata