Chi sono i lobbisti? «Sono persone che impiegano dieci minuti di tempo per farmi capire quello che un mio collaboratore riesce a spiegarmi in non meno di tre giorni». È la celebre frase con cui il presidente americano John Fitzgerald Kennedy, al quale non mancava certo il dono della sintesi, amava descrivere una professione che negli Stati Uniti ha più di un secolo di storia e che, da sempre, vive a stretto contatto con il potere. Si tratta appunto delle attività di lobbying, cioè la rappresentanza di interessi privati con cui un’azienda, un’associazione, un gruppo di potere o un intero settore produttivo cercano di condizionare l’azione di chi ha in mano le leve del comando: dai governi ai singoli ministri, dai parlamentari di tutti gli schieramenti sino ai responsabili delle authority pubbliche che regolano il mercato o le tariffe. Negli Stati Uniti, quello del lobbista è un mestiere abbastanza ambito e rispettato, a volte bersagliato di critiche, ma mai messo in discussione nella sua legittimità. Al di là dell’Atlantico, i primi regolamenti sulle lobby risalgono addirittura al secondo decennio del secolo scorso e si sono poi evoluti nel 1946, con la nascita del primo registro pubblico, contenente i nomi di tutti i lobbisti che operavano a quel tempo, a livello federale. In Italia, invece, le norme approvate quasi 70 anni fa in America sembrano ancora “cose dell’altro mondo”. A Sud delle Alpi, infatti, quasi sempre il termine lobbista evoca l’immagine torbida del faccendiere, dell’uomo che tesse la trama degli intrighi di palazzo o che fa viaggiare le mazzette nelle “stanze dei bottoni”. Purtroppo, questa rappresentazione del lobbismo all’italiana ha una sua ragion d’essere: nel nostro Paese il termine lobby è spesso sinonimo di malaffare, di gruppi di potere nascosti come P3 e P4 o di camarille varie come quella che in Campania, secondo una recente inchiesta dell’Antimafia di Napoli, negli anni scorsi ha cercato di ammorbidire persino i controlli sulla mozzarella di bufala dop, prodotta con latte congelato anziché fresco, in barba a quanto stabilisce la legge.«Per colpa di queste vicende, in Italia il termine lobby ha quasi sempre una connotazione negativa ed è usato erroneamente per indicare i poteri nascosti che alterano o corrompono il normale funzionamento di una democrazia», dice Vincenzo Bisconti de il Chiostro, associazione che promuove la trasparenza delle attività lobbistiche nel nostro Paese. Al contrario, secondo Bisconti, la legittima rappresentanza di interessi privati, quando avviene senza accordi sotto banco, è un passo importante per far crescere la cultura del pluralismo, in una società complessa come quella contemporanea. In altre parole, chi prende decisioni che impattano sulla vita dei cittadini non può non tener conto dell’esistenza di un coacervo di interessi particolari, su cui una determinata legge o uno specifico regolamento possono avere conseguenze significative. È proprio questo il compito del lobbista: far presenti questi interessi al mondo della politica, a cui spetta poi il compito di decidere. Una norma o un regolamento, infatti, possono danneggiare non poco una singola azienda o le imprese di un intero settore che danno lavoro a migliaia di persone, anche se l’intento del legislatore è soltanto quello di soddisfare un’esigenza della collettività. Di conseguenza, il lobbista interviene per spingere un politico o un grand commis di stato a tenere conto di tutte le conseguenze delle sue azioni. E allora, sorge spontaneo un interrogativo: è giusto che gli interessi privati, grazie alle lobby, riescano a prevalere su quelli collettivi? Il compito di dare una risposta spetta ai decisori pubblici (politici, parlamentari, funzionari di Stato) che devono stabilire se vale la pena, o meno, tenere in considerazione certe istanze (tutt’altro che trascurabili) che arrivano dalla società o dal mondo produttivo. «L’importante è che tutto avvenga alla luce del sole, con regole chiare e senza pratiche poco trasparenti», dice Paolo Zanetto, partner fondatore di Cattaneo Zanetto & Co, la società leader in Italia nelle attività di lobbying e di public affairs, che lavora al servizio di diverse imprese attive un po’ in tutti i settori, dall’energia ai beni di largo consumo, dalla finanza alle telecomunicazioni. In altre parole, secondo Zanetto, è bene che il mondo politico e l’opinione pubblica sappiano chiaramente quali sono le lobby esistenti in Italia, che cercano legittimamente di difendere un interesse privato. Sarà poi la stessa opinione pubblica a giudicare se un ministro, un deputato o qualche altro uomo di potere è stato troppo arrendevole di fronte alle pressioni esterne. Per questo, il Chiostro si batte da tempo per l’istituzione di un Registro dei rappresentanti di interessi particolari, da custodire presso il Cnel (il Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro). Si tratta di un elenco di tutti i soggetti abilitati a svolgere attività di lobbiying nel nostro Paese, nel pieno rispetto di regole predefinite. I futuri iscritti al registro, per esempio, non dovranno avere sulle spalle condanne per reati contro la pubblica amministrazione, non potranno essere in conflitto d’interesse e saranno obbligati a rispettare un codice deontologico, che è ancora da scrivere nel dettaglio ma che sarà comunque basato su principi di integrità, onestà e correttezza (gli stessi che stanno alla base dell’attuale codice etico de Il Chiostro).
QUANDO CONVIENE A MOLTI Ciò non significa, com’è ovvio, che il lobbista debba diventare o essere scambiato per una sorta di “benefattore della collettività”. Anche perché, è bene ricordarlo, le pressioni dei gruppi di potere riescono spesso ad arginare leggi importanti per lo sviluppo di un Paese. È il caso, per esempio, delle tanto discusse liberalizzazioni, che in Italia sono state sponsorizzate da più di un governo, per poi arenarsi di fronte al pressing di diverse corporazioni. Secondo i lobbisti di professione, però, ci sono anche parecchi casi in cui gli interessi di parte meritano di essere ampiamente tutelati, per evitare che una legge abbia conseguenze ancor più dannose dei problemi che intende risolvere. Ne sa qualcosa Licia Soncini, una dei fondatori della società di consulenza e lobbying Nomos-Centro Studi Parlamentari. Da tempo, Soncini segue il settore farmaceutico e di recente ha dovuto occuparsi di una “pratica assai spinosa”: proteggere le aziende che producono farmaci omeopatici dalle conseguenze del decreto sulla sanità, che porta la firma del ministro della Salute, Renato Balduzzi. Il decreto impone a ogni casa farmaceutica di versare all’Aifa (l’Agenzia italiana del farmaco) una tariffa di 1.000 euro per ogni medicinale che ottiene l’autorizzazione a essere immesso sul mercato. «Si tratta di cifre insostenibili per i produttori di farmaci omeopatici», dice Soncini, «che appartengono a un settore di nicchia, con caratteristiche molto particolari». Il fatturato dell’intero comparto degli omeopatici è infatti di appena 200 milioni di euro all’anno, mentre il numero di medicinali autorizzati (spesso calibrati sulle esigenze di ogni singolo paziente) è molto elevato: attorno ai 30 mila. Se vi fosse il pagamento di 1.000 euro per ognuno di questi medicinali, il comparto dell’omeopatia subirebbe un costo di 30 milioni circa, pari al 15% del proprio giro d’affari annuo e molte cure oggi commercializzate rischierebbero di sparire dal mercato, con buona pace dei pazienti che ne usufruiscono. Per questo, grazie anche alle attività di lobbying, nel decreto sulla sanità è stata inserita una piccola modifica che permette ai produttori di medicinali omeopatici di versare una tariffa ridotta all’Aifa: soltanto 200 euro per ogni farmaco e non più 1.000 euro, come previsto in precedenza. «Questo episodio è l’esempio di come una lobby può contribuire a migliorare il testo di una legge, piuttosto che a sabotarlo o a snaturarne gli effetti», dice Soncini. Più o meno la stessa cosa sostiene di aver fatto anche Zanetto, quando ha difeso gli interessi di alcuni investitori istituzionali che erano azionisti della Parmalat di Calisto Tanzi, finita in bancarotta. Le nuove regole sui fallimenti approvate negli anni scorsi, se applicate in maniera retroattiva, avrebbero infatti impedito al gruppo alimentare di Collecchio (che stava per essere risanato dal commissario Enrico Bondi) di portare avanti la propria azione revocatoria contro alcune grandi banche, per recuperare diversi miliardi di euro: un tesoretto che poi è andato a beneficio degli stessi azionisti della società, cioè dei grandi fondi d’investimento ma anche dei piccoli risparmiatori. Per questo, le nuove norme della legge fallimentare sono state un po’ ammorbidite, per proteggere degli interessi privati degni di tutela, come appunto quelli degli azionisti di Parmalat.
NON SOLO CAPACITÀ DI PERSUASIONE Il compito del lobbista, secondo Soncini, è dunque quello di saper spiegare a chi governa o fa le leggi gli effetti collaterali di una norma, mettendo a contratto due mondi diversi, quello della politica e quello delle imprese, che spesso non parlano lo stesso linguaggio. La pensa così anche Rossana Revello, presidente della società di consulenza Chiappe Revello, che gestisce le relazioni istituzionali per diverse aziende: «Il dialogo tra i manager o gli imprenditori e chi occupa incarichi di responsabilità pubblica è quasi sempre difficile e pieno di incomprensioni», dice, «per questo, occorre favorirlo studiando i canali comunicazione giusti». Questa esigenza, a detta di Revello, emerge soprattutto per le aziende che fanno molti investimenti sul territorio, come quelle che costruiscono impianti energetici. In questo caso, il lobbista deve elaborare delle strategie di dialogo e di confronto con i pubblici funzionari ma anche con la popolazione, i comitati di cittadini e tutte le persone che hanno una certa influenza a livello locale. L’ obiettivo è ovviamente quello di mettere in evidenza i benefici che un investimento produttivo può portare a un determinato territorio, in termini di nuova occupazione o di opere compensative che l’azienda finanzia a favore dei cittadini. Secondo Zanetto, però, bisogna sgombrare il campo da un equivoco: la figura del lobbista è un po’ diversa da quella di chi gestisce semplicemente le pubbliche relazioni o la comunicazione di una società. Per fare lobbying bisogna avere sì buone doti di relazione, ma conoscere anche i meccanismi decisionali che portano alla nascita di una legge e di un regolamento. La pensa così anche Giovanni Galgano, amministratore delegato della società di consulenza Public Affairs Advisors che dice: «Chi fa il nostro mestiere deve possedere competenze tecniche e giuridiche e conoscere anche i settori in cui operano le aziende clienti e le loro problematiche». Non basta, dunque, avere buoni rapporti con qualche politico o qualche ministro, per autodefinirsi lobbista. Secondo Galgano, è necessario svolgere anche un lavoro di intelligence e di monitoraggio preventivo e costante dell’attività politiche. Per questo, a detta di Galgano e Bisconti, ogni impresa di una certa dimensione trarrebbe grande vantaggio dal destinare una parte delle proprie risorse di bilancio alle attività di lobbying, che possono essere svolte attraverso un professionista interno, come il responsabile delle relazioni istituzionali della società, oppure all’esterno, affidandosi a un’agenzia di consulenza e di public affairs (in Italia, le più importanti sono circa una decina). In quest’ultimo caso, secondo gli addetti ai lavori, il costo per l’impresa non è elevatissimo e varia di solito tra un minimo di 15-20 mila euro all’anno fino a un massimo di 60-100 mila euro, a seconda della complessità delle “pratiche” da gestire. «Purtroppo», dice ancora Galgano, «non sempre le aziende italiane comprendono bene l’opportunità di avvalersi di un lobbista, anche se negli ultimi anni la percezione dell’attività di lobbying è notevolmente migliorata agli occhi della business community». La prova arriva anche da un sondaggio su 200 manager di grandi aziende che Public Affairs Advisors ha commissionato alla società di ricerca Acqua Market Research (Leggi i risultati). La stragrande maggioranza degli intervistati, per esempio, ritiene che il ruolo più importante, nelle attività di lobbying, sia svolto dalle associazioni di categoria che però, è bene ricordarlo, difendono soltanto gli interessi di un intero settore e non quelli delle singole imprese, le quali hanno spesso delle esigenze particolari e in contrasto con quelle dei concorrenti. Forse, se venisse creato un Registro pubblico dei lobbisti, molti operatori di questo settore acquisterebbero maggiore visibilità sul mercato. Per adesso il progetto del Registro rimane ancora sulla carta. Soltanto il ministro dell’Agricoltura, Mario Catania, ha avviato una iniziativa di questo tipo, limitatamente però al settore di sua competenza.
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