«La bontà», diceva il filosofo Henry Thoreau, «è l’unico investimento che non fallisce mai». Non sono solo belle parole: etica e profitto vanno davvero di pari passo e la conferma viene dai tanti imprenditori italiani, grandi e piccoli, che stanno riscoprendo tutto il bello (e l’utile) dell’agire bene.
Perché le imprese che investono in responsabilità sociale, numeri alla mano, sembrano capaci di creare anche valore aggiunto. Il motivo è semplice: sostenibilità ambientale e sociale sono due ingredienti della competitività, anzi, ne sono le basi e le fondamenta perché senza uno sviluppo sostenibile non ci sarebbe futuro, per nessuno. E allora addio concorrenza.
Sarà per questo che oggi la sostenibilità, in tutte le sue forme ed espressioni, è diventata un percorso obbligato per quelle imprese che vogliono essere davvero competitive. Imprenditori e manager, infatti, lo sanno bene: pur mirando al profitto, ogni giorno devono misurarsi anche con una serie di questioni che vanno al di là del puro margine di guadagno e che impongono obiettivi non direttamente economici, eppure i soli, forse, in grado di apportare valore.
da manager a innovatrice sociale
Quali? Semplice: per un’impresa, essere eticamente responsabile significa perseguire il profitto – non è peccato, anzi – ma nel rispetto di determinate regole, preservando la buona reputazione, ispirando fiducia negli stakeholder, valorizzando le risorse umane interne e tutto ciò che invece ruota attorno all’impresa, dall’ambiente naturale a quello sociale. Si tratta di un impegno notevole, anche dal punto di vista degli investimenti, ma i cui ritorni sono impagabili. E ne vanno di mezzo la reputazione aziendale, il buon nome e, di conseguenza, il buon profitto.
Attenzione però: non stiamo parlando di operazioni di facciata – sarebbe troppo facile, vero? – anche se di esempi in negativo, di aziende e aziendine che finanziano una tantum qualche sconosciuto progetto umanitario in Uganda, ce ne sarebbero parecchi. No.
Il green washing non paga e le azioni di sola “propaganda” non costruiscono, anzi distruggono, la buona reputazione. Qui parliamo di impegni rinnovati di anno
Parliamo di colossi come Pirelli, l’unica produttrice di pneumatici inserita nel Global Compact 100, il nuovo indice di finanza sostenibile dell’Organizzazione delle nazioni unite, parliamo delle decine di progetti di Italcementi, che lavora fianco a fianco all’agenzia con l’obiettivo di allineare le sue azioni a principi universalmente condivisi nelle aree dei diritti umani, delle condizioni di lavoro, dell’ambiente e della correttezza etica.in anno con i fatti.
O, ancora, di Diana Bracco, che ha dimostrato con la sua fondazione come sia possibile (e utile per tutti) costruire un ponte fra ricchezza finanziaria e bisogni sociali, sempre più urgenti, e di Enel Cuore, l’onlus del colosso dell’energia il cui obiettivo, dice la presidente Maria Patrizia Grieco, sono “i buchi della società”, quelle ferite che si aprono dove il welfare non arriva e dove sprofondano prima di tutto i bambini.
PER SAPERNE DI PIÙ
– Tutto il buono della finanza
«Un numero sempre maggiore di imprese è attento al fatto che il profitto non è l’unico obiettivo di un’impresa», dice Ugo Castellano, consigliere delegato della Fondazione Sodalitas, l’organizzazione promossa Assolombarda per costruire un ponte tra impresa e società, a cui aderiscono oltre 100 aziende leader del mercato italiano, «che profitto e sostenibilità sociale possono convivere, che sostenibilità e impegno sociale sono altrettanto vitali per il futuro di un’impresa che la crescita economica e che l’economia deve farsi carico delle ragioni dell’equità e dell’uguaglianza».
Sono loro gli eroi del profitto buono e sostenibile. E nel novero spiccano i brand della moda: sarà perché sono quelli capaci di anticipare, prima di altri, le tendenze culturali o di imprimere forza ai mutamenti sociali, fatto sta che la moda etica è uno tra i binomi di più vasta portata degli ultimi tempi.
Forse l’appello di Diego Della Valle agli imprenditori per destinare l’1% degli utili al welfare era solo una (bella) provocazione, ma a ben guardare già oggi buona parte del budget del settore lusso è destinato al bene comune.
I BRAND DELLA MODA HANNO CAPITO PER PRIMI
CHE L’IMPEGNO VERSO CHI É IN DIFFICOLTÀ
CONTRIBUISCE AL FUTURO DELL’IMPRESA
Gucci, per fare solo un esempio, investe in attività umanitarie, eco-sostenibili e filantropiche e sta certificando come “socialmente responsabile” tutta la sua filiera. E il vulcanico Renzo Rosso si è messo in gioco in prima persona con Only The Brave, la fondazione nata cinque anni fa che raccoglie parte dei proventi economici della Diesel e degli altri brand del gruppo per sostenere le persone e le aree svantaggiate in tutto il mondo, dall’Africa del Sahara alle vittime dell’ultimo terremoto in Emilia Romagna.
Le aziende che producono ricchezza, è la chiave di lettura che Renzo Rosso offre della sua impresa ma che vale per tutti, devono ridistribuire i loro profitti anche in ambito sociale e restituire al territorio quello che ricevono. Come dire: si dovrebbe pensare più a far del bene che a stare bene. E così forse si finirebbe anche a star meglio. Tutti.
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