Un solarium in messo al mais

L’affare delle energie rinnovabili si regge su un delicato meccanismo di incentivi pubblici. Ma per il mondo dell’agroalimentare è spesso l’unico modo per diversificare i ricavi. Ecco come (e a che costi) i contadini si trasformano in imprenditori energetici

I contadini cominciano a snobbare concimi e trattori e accarezzano l’idea di trasformarsi in imprenditori energetici. Chi potrebbe biasimarli? Il trapianto nei campi di schiere di pannelli fotovoltaici al posto di ortaggi e cereali, unito all’allevamento di bestiame per produrre biomasse (quindi con un occhio di riguardo agli escrementi, più che ai tagli da macello) sembra essere in prospettiva il business più allettante tra tutti quelli legati all’agricoltura moderna. «Senza contare che è l’unico vero modo per attirare i giovani verso il settore primario», sostiene Camillo Gardini, presidente della Cdo agroalimentare. Visto il declino inarrestabile degli utili legati alla vendita dei prodotti della terra, la concorrenza delle colture straniere e gli inspiegabili meccanismi della costosissima filiera agroalimentare italiana, non stupisce che i proprietari terrieri non vedano l’ora di cedere in usufrutto pluriennale parte dei propri appezzamenti. Ad acquisirne i diritti di superficie sono le società nate sull’onda della green economy, che ricoprono i terreni coltivabili di pannelli per produrre kiloWatt da vendere al gestore della rete elettrica. Anche se poi gli utili arrivano soprattutto attraverso gli incentivi che lo stato fornisce per l’immissione di energia “pulita” nel sistema italiano.Nessuno pensi però che il ruolo del proprietario terriero del ventunesimo secolo si limiti a una riedizione in chiave tecnologica della mezzadria: ci sono coltivatori che investono fior di milioni per trasformare serre, magazzini e campi in centrali fotovoltaiche che poi gestiscono in prima persona. E questo senza rinunciare al lavoro della terra. Se non altro perché lo prevede la legge: una volta superata la soglia dei 200 kiloWatt, per far rientrare la produzione di energia fotovoltaica nel novero delle attività agricole è necessario dimostrare di possedere almeno un ettaro di terreno adibito a coltivazione ogni 10 kiloWatt di potenza prodotta. Questo significa che un contadino, se vuole produrre un megaWatt di energia solare, deve necessariamente coltivare almeno anche 80 ettari di terreno alla “vecchia maniera”.Ma cosa spinge tutto a un tratto il settore primario a compiere un balzo così deciso verso l’energia verde? Salvatore Caruna di Coccaglio (Bs), oltre a non voler più investire in attività che hanno smesso di rendere in maniera soddisfacente (nello specifico l’allevamento di suini, con circa 20 mila capi), vuole lasciare alla nuova generazione un’impresa capace di diversificare la propria profittabilità. Ecco perché prima della fine del 2010 nella sua azienda agricola entreranno in funzione due impianti – uno per la produzione di energia fotovoltaica, l’altro per lo sfruttamento delle biomasse – che dovrebbero generare nel complesso due megaWatt di potenza da cedere all’Enel. Rocco Maccali di Isso (Bg), invece, investe nel rinnovabile perché è sicuro che sia la risposta più convincente alle sfide energetiche di domani. Maccali ha concesso per 25 anni lo sfruttamento di 11 ettari in suo possesso a Nrg Agrivis, con cui è entrato in società. Nrg, azienda bresciana specializzata nella creazione e gestione di impianti fotovoltaici, installerà con Vipiemme Solar una centrale da 2,5 megaWatt sul terreno, e Macalli riscuoterà il 10% degli utili ricavati dalla vendita dell’energia prodotta. Grazie alla tecnologia di Nrg Agrivis e Vipiemme Solar, che realizzano pannelli a inseguimento biassiale (capaci cioè di seguire gli spostamenti del sole durante la giornata senza proiettare continuamente l’ombra nello stesso punto), Maccali non dovrà rinunciare a coltivare quell’appezzamento. E non avrà, eccezion fatta per la vite, alcuna restrizione sulla scelta dei semi da piantare. Insomma, l’affare pare proficuo o per lo meno poco rischioso per le aziende agricole. Ma rimane la spada di Damocle degli incentivi: ora come ora la vendita dell’energia prodotta conviene solo perché si ricevono gli aiuti statali. «Con il costo attuale della tecnologia è impossibile che il sistema si regga da solo», conferma Caruna. «Per parlare di investimento sostenibile, gli impianti dovrebbero costare un terzo dei 3 mila euro per kiloWatt/h che paghiamo adesso. Abbiamo a che fare con una falsa economia, che funziona solo grazie agli incentivi. Bisogna però ammettere», chiosa amaramente Caruna, «che pure le attività primarie tradizionali sono diventate false economie…»A sorpresa, assumendo invece una prospettiva macroeconomica, la diffusione di impianti per la produzione di energie rinnovabili si rivela un fenomeno davvero interessante. Secondo Andrea Prato, assessore dell’Agricoltura della regione Sardegna, fotovoltaico e biomasse rappresentano con il turismo la quadratura del cerchio per la salvaguardia del patrimonio agricolo italiano. La parola d’ordine? Multifunzionalità. «Da una parte l’unico modo per risollevare il prezzo medio delle materie prime, che sarà insostenibile per i prossimi dieci anni, è incentivare le piccole aziende a diversificare le proprie attività spingendo sul versante dell’ospitalità agrituristica», spiega Prato. «Mentre per abbattere i costi di produzione delle grandi imprese agrarie il tipo di multifunzionalità che occorre è quella energetica. Faccio un esempio. Oggi coltivare in serra comporta diverse diseconomie: bisogna innanzitutto consumare energia per scaldare le coltivazioni. Serve gasolio, ed è il prezzo del gasolio ad aver mandato in default l’economia agricola. Ma anche i costi sostenuti per le altre colture non sono in linea con il ricavo medio generato dalla vendita. Servono energia gratis e un reddito integrativo. Il fotovoltaico e le biomasse rispondono perfettamente a queste esigenze, ed è per questo che esorto le regioni italiane a incentivare la diversificazione delle attività agricole. Anche perché nel frattempo i francesi stanno realizzando migliaia di ettari di impianti per le rinnovabili, così come i tedeschi, mentre gli olandesi l’hanno già fatto, e gli spagnoli sono sulla buona strada. Ciò significa che a breve su alcune tipologie di verdure avremo materie prime provenienti dall’estero a prezzi bassissimi».A questo punto, visto che la strada sembra obbligata, resta solo da appurare qual è l’impianto che fa al caso di un’impresa agricola. Meglio tralasciare il discorso dell’eolico, che richiede investimenti esorbitanti, e che implica un impatto sul paesaggio e sulla fauna avicola così pesante da avergli alienato persino le simpatie degli ecologisti senza “se” e senza “ma”. «Inoltre», aggiunge Prato, «non crea occupazione sottostante. La produzione di energia eolica genera 0,1 addetti a megaWatt. Il fotovoltaico ne genera sei, mentre le biomasse addirittura 30. Significa che in Sardegna ora avremmo potuto avere dai seimila ai 30 mila posti di lavoro sicuri se non avessimo spinto di più sull’eolico. Abbiamo impianti per 1000 megaWatt, tra progetti autorizzati e opere realizzate, ma la Sardegna è un’isola, e per di più poco infrastrutturata con il resto del paese. Quindi non possiamo ridistribuirli. Avendo già raggiunto il nostro fabbisogno e non potendo immagazzinare l’energia, direi che abbiamo perso un’occasione straordinaria di occupazione».Dunque la scelta fondamentalmente è tra le biomasse e il fotovoltaico. La prima è più impegnativa, ha costi di gestione maggiori e un numero più elevato di rischi da preventivare. Ma promette utili molto più consistenti e un rientro assai più rapido del capitale investito. «Con le biomasse produrrò 8 mila megaWatt all’anno, con il fotovoltaico solo 1.150», conferma Salvatore Caruna. «Anche io avevo preso in considerazione anche le biomasse», dice Rocco Maccali. «Ma per far funzionare un impianto da un megaWatt servono come minimo 200 quintali di trinciato di mais al giorno. E poi bisogna creare le strutture adatte. Non dico che non sia vantaggioso: sulla carta si rientra molto prima dall’investimento, cioè in massimo quattro-cinque anni, però è un’attività davvero molto impegnativa».Un impianto fotovoltaico, invece, una volta installato, inciderà sulle tasche del proprietario solo per le normali spese di manutenzione, garantendo un lento (occorrono 10-15 anni) ma più sicuro rientro dall’investimento. Occhio però alle fasi iniziali dell’affare: «Tra l’inizio del processo, l’installazione, il collaudo e l’erogazione del contributo passa del tempo, anche sette-otto mesi», avverte Alessandro Cremonesi, amministratore delegato di Nrg Agrivis. «Questo significa che a livello finanziario se ci si affida a un leasing c’è un necessario periodo di preammortamento da calcolare. Se poi consideriamo che il collaudo definitivo dell’impianto lo fa il gestore della rete, spesso e volentieri i tempi si allungano ulteriormente. Però è un problema conosciuto, bene o male ci si riesce a organizzare». I rendimenti? Variano a seconda della tecnologia, della zona e dell’irraggiamento solare, dice Cremonesi. Un impianto al Sud, in genere, rende di più di uno al Nord, ma secondo lui non c’è tutto questo divario. «Esistono tecnologie, come per appunto quella dei nostri inseguitori solari biassiali, che riescono a calmierare la differenza di irraggiamento solare. Io, personalmente, ho scelto di investire in Pianura padana, ma solo per poter seguire le strutture da vicino, visto che si tratta di impianti da milioni di euro».Non c’è che dire, le aspettative sono alte e l’entusiasmo non manca. Però, va ribadito, non è tutto fotovoltaico quello che luccica: fino a quando le varie iniziative non diverranno sistema e i costi per l’installazione degli impianti non caleranno come molti auspicano, quella delle energie rinnovabili sarà per il mondo agricolo solo una bella promessa piena di incentivi. «Noi abbiamo fatto i nostri conti su questa promessa», chiosa Caruna. «Ma se l’Italia fa la fine della Grecia, chi è che ci paga?».

NUOVE ENERGIE

10 miliardi di euro, il valore del mercato delle rinnovabili in Italia

350 le aziende che operano con le biomasse, di cui l’87% italiane

30 mila gli impiegati nel settore

700 le imprese che operano con il fotovoltaico. Poco più della metà sono italiane

Fonte: Energy & Strategy Group (Politecnico di Milano)

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